06 Febbraio 2014, 09.00
Vobarno
Ricordi

Vobarno, il paese fabbrica

di Pino Greco

Cosa non ti combina una cartolina. L’ho scovata qualche domenica fa a  piazza Vittoria. Su una bancarella del mercatino dell’antiquariato


Antiquariato! .. diciamo pure di quelle vecchie cose che le nostre mamme, negli anni cinquanta, hanno improvvidamente barattato con la plastica, la fòrmica o il truciolato.
La scenografia è quella che è: monumentale, un po’ enfatica.  A volte scostante.
Con tutta quella distesa di marmi di mussoliniana memoria. Concepita per adunate e fasti imperiali, mai più replicati.
Solitamente disertata dai bresciani che preferiscono sostare in Piazza Loggia, magari in largo Formintù, e persino nella teatralità sontuosa di piazza Duomo.          

Le bancarelle se ne stanno defilate sotto i portici. A me piace curiosare fra quadri, libri, vecchie stampe e cartoline. Quelle “illustrate” come si diceva un tempo.
Scorci di città e di paesaggi virati seppia. Come le foto dei nonni sui comò delle vecchie camere da letto.
A passarle con pazienza si fanno scoperte emozionanti.

Una volta m’è saltata fuori una veduta di Avezzano del 1915. Ma senza piazze, monumenti equestri, duomi e palazzi ducali. Niente.
Solo uno stradone desolato, mucchi di macerie e travi scomposte, perfino barelle, soccorritori e salme allineate, coperte di polvere.
Praticamente un’istantanea del post-terremoto. Una testimonianza di una tragedia di cui si voleva diffondere, quasi in tempo reale, la brutalità iconica.

Questa volta m’è apparsa una veduta di Vobarno, anni ’20.  Ma, anche qui, il paese non c’è.
Unico elemento ritratto, ad eccezione del fiume e dei monti incombenti, la fabbrica. La mitica Falck. Con le sue ciminiere, i capannoni squadrati, qualche serbatoio, il solito reticolo di tubi di raccordo.

Non un granché.
Certamente modesta rispetto  al grande complesso che sarebbe cresciuto nel tempo. In ogni caso l’apparizione della grande e sconvolgente novità storica della rivoluzione industriale. 
Del contadino e dell’artigiano che si facevano operai  nel quadro delle tecnologie, delle culture e delle istituzioni che si esprimevano  ancora nel medesimo linguaggio essenzialmente rurale.

Ho provato ad immaginare le intenzioni di chi quelle cartoline le spediva ad amici e conoscenti lontani.
Le finalità di un gesto che prefigurava la condivisione non di un retaggio storico o di uno scorcio paesaggisticamente gradevole, bensì la concretezza disadorna della “propria” fabbrica. 
Propria anche di quelli che non avevano mai timbrato un, cartellino, ma nelle conversazioni minute al bar, al mercato, al parrucchiere o alle panchine dove prendono il sole i pensionati, si imbattevano fatalmente nei  riferimenti obbligati di ogni discorso. E cioè  turni, reparti, colate, infortuni, scioperi, celerini  e buste paga.

Già, perché una fabbrica come la Falck, quando con essa e per essa viveva un’intera comunità di uomini, non era solo un apparato produttivo, un puro soggetto economico.    
Era  un universo che si autoalimentava di fatti e figure che esso stesso produceva.
Il generatore di comportamenti e inclinazioni caratterizzanti tutta una maniera di vivere. 
L’obiettivo verso cui si indirizzava quell’irresoluto coacervo di odio-amore che l’anima popolare esprimeva nel travaglio che contrapponeva, da un lato il senso di gratitudine per un’opportunità di lavoro e di vita, dall’altro il rancore istintivo per la contropartita in salute e in dignità personale.

In definitiva, fuori di metafora e da ogni  tentazione sociologica, la Falck di Vobarno, alla pari di altre fabbriche in altri luoghi della terra, produceva una cultura industriale. Che era poi la matrice a cui si riconducevano gli elementi tipici della personalità della gente che in quella cultura si era  trovata immersa in ogni istante della vita.
A cominciare dall’acquisizione di un bagaglio lessicale intriso di certe peculiarità proprie dell’ambiente di fabbrica, per finire alla consapevolezza di una condizione comune. Quella che, con accentuazioni più o meno marcate, era avvertita come istinto o coscienza di classe.

Brescia febbraio 2014  - P I N O    G R E C O

 


Commenti:
ID41173 - 06/02/2014 10:10:09 - (sonia.c) - ha ragione signor Greco!

una condizione comune che,crava una certa socialità.cosa fa il tuo papà nella fabbrica? davi per scontato che da qualche parte un posto l'aveva! si facevano confronti ,ci si vantava del posto"importante" del genitore.c'erano legami di conoscenza "rituali":è passata sotto le finestre la "signorina segretaria" ..sbrigati che suona la sirena....ma c'erano anche legami d'amicizia ,conoscenza ,anche nel tempo "fuori fabbrica".la colonia per bambini ad esempio.. quando ha chiuso ,la fabbrica,si sono chiuse anche le persone,non solo disperse per causa di forza maggiore..grazie signor Greco.

ID41731 - 16/02/2014 15:50:10 - (astrolabio) -

Un pensiero malinconico: si stava meglio quando si stava peggio. In quegli anni battaglie sindacali sacrosante. Poi la degenerazione del sindacato e della politica. Ed oggi quasi quasi a rimpiangere il tempo che fu'.

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