05 Gennaio 2014, 18.37
Idro Valsabbia
Tradizioni

Nostalgia de «La Stella»

di Pino Greco

Valsabbino come pochi, l'abruzzese Pino Greco a Natale non mancava di fare un salto dai suoi. Cascasse il mondo per, il 5 di gennaio era di nuovo a Lemprato


La Stella è un andare per case. Dopo il tramonto.
Il cinque di gennaio.
 
La Stella e i tre Magi vanno avanti, seguono i cantori. Dieci, quindici, venti. Verso la fine si accoda una piccola folla. Le storie che si raccontano in valle sono simili. Guai a dire uguali. Ogni paese, ogni frazione rivendica una sua originalità. Ma l’humus è lo stesso. L’Epifania filtrata da testi sacri e leggende. Contaminata da sopravvivenze pagane e raccontata in un  lessico un po’ così. Rudimentale, candido, disarmante.  
 
La Stella l’ho fatta per anni. A Lemprato. Lemprato è una frazione di Idro, ma si allarga  come un paese. Fino a comprendere altre minifrazioni. Di qua e di là del lago. Ville e villette, piccoli accrocchi, borghi isolati, cascine sparse sui prati. Dai Tre Capitelli ai primi tornanti inerpicati verso Treviso. A passarle tutte non si finisce mai.  
 
Il clima ingrato è scontato, ma la gamma è varia. Dalla pioggerella irritante alla nevicata copiosa che esalta e fa coesione. Ma lo standard abituale prevede: serata gelida sotto un cielo di stelle. E’ capitato spesso di arrivare ai Tri Bucù,  ultima tappa, con le mascelle atrofizzate e i lombi indolenziti. Ma a prendere scorciatoie non ci si pensava proprio. La faticata era una sorta di sacrificio devozionale che ridestava per giorni artrosi e vecchi malanni. Ma quella sera si ubbidiva a  un’autodisciplina che riscattava le indolenze della quotidianità e recuperava il piacere del gesto noncurante, ma socialmente significativo.                                                                                              Posso dire che mi manca? Mi manca, sì mi manca.
 
La Stella mette assieme, per una sera, gente che spesso fatica ad incontrarsi se non per occasioni come un funerale, un evento sportivo, un rito religioso. Quando si è semplicemente spettatori. Con la Stella si diventa protagonisti, ma senza individualismi. Armonizzati nelle cadenze del coro.                                                   
 
Mi ricordo che non c’era bisogno di convocazioni. Si sapeva che una certa ora qualcuno era partito ed il percorso era obbligato. Dalla destra alla sinistra del lago. Se te la sentivi li raggiungevi seguendo l’eco intermittente dei canti. I giovani ci  davano dentro la prima parte. Si sa che al Ponte si aggregava la vecchia guardia. All’arrivo ti passavano un ciclostilato normalmente liso e ingiallito, ma poi la memoria recuperava dimestichezza con le storie e andavi via a braccio. Ad ogni buon conto c’era sempre quello che attaccava una frazione di secondo prima e dava l’input giusto.
 
La Stella, poi, ti permetteva di dare uno sguardo dietro le quinte. Di sperimentare scenari inusuali. Dentro quei cortili  normalmente preclusi allo sguardo dell’automobilista o del viandante distratto. Oppure di fare uno scarto dagli itinerari ordinari, di  varcare i cancelli di certi giardini pretenziosi, di risalire viuzze e scalinate di raccordo. A volte di scoprire qualche furba disinvoltura edilizia. In un paese di impresari e muratori era il meno.
 
Significava anche verificare la socievolezza delle famiglie raggiunte. Qualche portone, infatti, rimaneva chiuso. I più accoglievano grati e festosi.
Da qualche casa s’affacciava  perfino una caraffa benedetta di vin brulé. Sempre e comunque qualcuno veniva fuori a scambiare due parole. A ringraziare. A socializzare. Magari con un sorriso, un cenno della testa, una pacca sulla spalla.
Un evento che, per la sua brevità non rappresentava neppure un evento. Eppure in quelle manciate di secondi si recuperava un senso di appartenenza che non aveva a che fare con le origini, la cultura, la storia. Quasi l’accendersi di una favilla elettromagnetica fra individui che avrebbero continuato fatalmente a ignorarsi nei giorni, nei mesi a venire. Magari fino alla Stella successiva.
 
La composizione della compagnia rivelava l’onomastica più diffusa.  I Cocconi, per esempio. Tra fratelli, sorelle e cognate, un vero e proprio zoccolo duro. Poi le rappresentanze sparse.
I Vaglia, i Collio, i Gasparini, i Silvestri. Prime, seconde e terze generazioni. Qualche ottuagenaria tosta. Qualche new entry incuriosita.
I più, intabarrati in vecchie mantelle infeltrite e cappellacci neri. Ma defilati in coda veniva buono anche l’eskimo o il piumino variopinto. In mezzo al fluttuare di sagome scure sgambettava una brevilinea vigile e frenetica. A sollecitare la  marcia, a disporre le voci, a dare l’attacco.
 
La Iose aveva i tratti della montagnina: zigomi alti, sguardo  diretto, bocca decisa. Il resto, tutto tette e energia. Il suo era un compito fondamentale. Per esempio scegliere la strofa giusta  per ogni casa.
C’ho messo un po’ ad afferrare che la quartina con i Magi, quella con i pastori, quella con certi boschetti insidiosi o con il truce Re Erode, non erano la stessa cosa.
 
Nel tempo l’immaginario collettivo aveva elaborato un protocollo occulto  che associava il contenuto dei versi con l’indole, il ruolo e la considerazione sociale del soggetto a cui erano indirizzati. A volte si coglieva perfino un adattamento a situazioni contingenti. Tipo lutti, malattie, dissesti.
La Iose aveva anche l’incarico di ritirare le offerte. Dal panettone, alle bottiglie di vino, alle buste. Dalle buste certe annate sono uscite cifre a sei zeri. A me non interessava granché la destinazione di quei gruzzoli. La ricompensa, provvidenziale ed effimera, era la tiragna, era il vino a volontà e il caffè bollente in quell’antro accaldato e zeppo all’inverosimile. Quella immateriale e duratura era la memoria grata di una serata irripetibile.
 
La location era il vecchio caseificio sociale. Orgoglio di quelli di Lemprato. Per dire: la Stella di Crone nasceva e si concludeva all’oratorio. Voleva pur dire qualcosa. Ho fatto per anni il presidente di seggio. Ad ogni scrutinio, che fossero politiche, amministrative o referendum, le due sezioni ribadivano certe  inclinazioni divaricate. Clericali e laici, bacchettoni e trasgressivi, culi bianchi e comunisti (si fa per dire… ci siamo intesi!). Almeno fino al rimescolamento della Lega. In ogni caso a posare il culo sulle panche del vecchio caseificio ci si sentiva a casa. Senza supervisori con le fisime del decoro perbenista. Si poteva sbaraccare in santa pace sforando la mezzanotte, i decibel  e la sconvenienza. Quasi un anticipo del carnevale. Già  perché, riemersi dall’assideramento, lubrificate le corde vocali strapazzate per ore, si ricominciava a cantare. Su altri registri. Era il trapasso dalla nenia popolana, spruzzata di ingenua  religiosità, al vintage  laico e passionale delle hit anni sessanta. E poi sempre più indietro, fino a rovistare  nell’archeologia dei classici. Che so, Signorinella, Rose rosse, Malafemmena.  

A tirare il gruppo il Valentino, con la sua memoria prodigiosa. Oppure la Iose col suo prezioso prontuario da gita parrocchiale.    L’apoteosi, quando si attaccava con le oscenità, prima soft e poi esplicite, dei must  da osteria. Tipo. “co’ sinq franc te la fò veder / co’ des franc te la fò tastà / co’ vint franc te la fo pruà ‘n mes ai pràa ”. Un tormentone che coinvolgeva nello sbracamento l’intera compagnia. Tra ammiccamenti svagati e disinibiti.  Alla  quarta, quinta replica si capiva che la serata si stava spegnendo. Che la fantasia non pescava  più titoli trascinanti. Che l’effetto lenitivo del vino sulle corde vocali stava lasciando il posto a quel raspino rugginoso che prelude a un black aut definitivo. Che la gambe e la schiena reclamavano un letto morbido. 
 
Ci si riavviava alle proprie case in un incrocio di saluti trasognati, reiterati e un po’ traballanti. Non prima d’aver tribolato un bel po’ a sbrinare le auto. C’era una sensazione di sfinimento appagante. Ma sottotraccia si faceva strada anche il compiacimento  per un gesto di una valenza inusuale. Etica, se si vuole. Si sa di certe patologie che infieriscano sulle persone anziane, lasciandole in vita, ma con un corpo che non reagisce più ai comandi. Disabilità, isolamento, oblio.
Eppure, quando dentro certi cortili la Iose faceva cenno di alzare il volume, si capiva che dietro  certe tendine illuminate a fatica c’erano orecchie e cuori in ascolto. La Giselda, el Fanì, la Marianna, el Bepi… erano persone con una presenza rintracciabile ormai solo nella memoria collettiva. Magari significativa.
Ma importava poco. In quel momento erano tasselli di un’umanità sofferente a cui si donava il viatico di una vicinanza della comunità di appartenenza. Allora quella serata passata a scarpinare nel gelo assumeva i contorni indefinibili di una solidarietà autentica. Di un appuntamento da non perdere. Appunto


Pino Greco
 


Commenti:
ID40037 - 05/01/2014 19:57:13 - (sonia.c) - GRAZIE signor Greco!

lei è straordinario! cin cin

ID40039 - 05/01/2014 21:55:46 - (cottali) - Grande Prof.

come sempre i suoi racconti raccontano alla perfezione le storie e i ricordi da lei narrati , ogni volta che leggo mi ritorna alla mente il periodo delle Medie a Casto alle quali ho avuto il grande piacere di averla come prof. un felice anno nuovo prof. Fabio

ID40042 - 06/01/2014 03:13:30 - (Tarzan) - Il termine MONTAGNINE non mi piace.

Scritto da un professore abru'zzesse ancora meno.

ID40047 - 06/01/2014 10:19:37 - (sonia.c) - mentre cercavi il razzismo inesistente nelle parole del signor Greco..

hai mostrato senza ombra di dubbio il tuo. davvero nei suoi racconti ,non "cogli" l'affetto e l'amore (espresso proprio attraverso una garbata ,simpatica ,schietta ironia) verso le nostre valli che ,a buon diritto di vita vissuta,sono anche le sue?

ID40049 - 06/01/2014 10:29:20 - (sonia.c) - è QUESTO CHE INTENDO SEMPRE..

quando parlo di "non vedere".ognuno vede con le lenti che si è messo sù! chi vede bene,vede bene con gli occhi del cuore !occhi che non soffrono di miopia ,ne di presbiopia:vedono bene ,da lontano e da vicino..ma più che altro,guardano bene.

ID40052 - 06/01/2014 10:51:41 - (genpep) -

non ho avuto il piacere di conoscere personalmente il prof. Greco, a dipinto da tutti come persona squisita. Leggo i suoi scritti e vedo una persona innamorata della nostra valle, sicuramente molto più dei politichetti locali che fanno a gara per chi la distrugge meglio. Abruzzese, caro Tarzan, quindi simpaticamente montagnino esattamente come noi. Buona befana a tutti dal genpep sempre orgogliosamente MONTAGNINO!!!

ID40053 - 06/01/2014 11:33:08 - (sonia.c) - e io sono una montagnina con il sex-apple doc..

ho le tette grosse..

ID40056 - 06/01/2014 13:46:56 - (70ma) - un cantore stella Lemprato

Grazie Pino...l'atmosfera è ancora quella da te così bene descritta .... ieri sera parlavamo proprio di te al caseificio...la Iose ha intonato ancora "Mamma Ceccho mi tocca"... noi ti aspettiamo l'anno prossimo fuori dal caseificio ...partiamo alle 15.30 ...circa BUON ANNO profe

ID40470 - 18/01/2014 11:22:33 - (VALENS) - prof, un capolavoro!

una mia amica giorni fa mi chiese di raccontarle in che cosa consistesse "la Stella", tradizione alla quale ogni anno partecipo con immenso orgoglio: mi permetto di inoltrarle le sue parole, un commovente capolavoro! La aspettiamo!

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