D'estate la gente si muove. Gira di qua e di lŕ. A volte freneticamente. E a settembre č tutto un raccontare: maldive, capinord, ibize, sharm, fuerteventure...
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Questo è un omaggio per Giacomino, Sonia e per il drappello di tenaci followers dei miei racconti.
Un excursus fuori dai soliti itinerari.
Per una quarantina d’anni ad Agosto ho ingrossato il serpentone che si metteva in marcia sulle autostrade.
L’esercito dei vacanzieri, come ci definivano i telegiornali. In realtà gente che si muoveva per raggiungere il proprio paese e passarvi semplicemente le vacanze.
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Agosto
D’estate la gente si muove. Gira di qua e di là . A volte freneticamente.
E a settembre è tutto un raccontare: maldive, capinord, ibize, sharm, fuerteventure…
Immancabilmente mi tocca ascoltare, annuire ammirato e tacere.
Farei fatica a raccontare un’escursione a Val Venisio, quando le cicale assordano e le capanne dei pomodori avvizziscono sotto il sole pomeridiano.
O a descrivere il tramestio dei carpini e dei lecci quando una gazza spicca il volo e taglia il cielo sui tornanti che portano a Mont’Alto.
Già , perché la mia vacanza comincia e finisce a Bussi.
Nella valle che si slarga morbida tra le anse del Tirino e gli uliveti che risalgono verso Navelli e Villa Santa Lucia, per poi infilarsi scorbutica nelle gole di Tremonti.
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Un territorio minimo, da percorrere lasciando scorrere sulla pelle storie e sensazioni.
Un itinerario della memoria che rivive silenziosamente dentro, ma ogni tanto concede il gusto di scoperte e di stupori.
Da qualche anno giro in bicicletta. E’ accaduto anche l’agosto scorso. Tutti i giorni, dalle due in poi, quando il sole era assoluto sui sassi corrosi e sui salici sospesi alla ricerca di un soffio leggero, mi piaceva sfidare il buonsenso pedalando sconsideratamente su una vecchia Torpado.
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Niente a che vedere con le mountain bike degli apprendisti ecologi, ma ruote pesanti, polvere e grasso sulla catena, plasticaccia scaldata e stinta sulla sella, cambio rigorosamente fisso.
Uscivo dall’abitato e subito una suggestione: i ruderi della Madonna di Cartignano.
Tre navate segnate da colonne esili. Niente tetto. Un perimetro di blocchi di tufo incisi da ghirigori e simboli indecifrabili.Â
Evocazione di antiche pietĂ e di laboriositĂ benedettine.Â
Un luogo di culto certamente, ma la memoria più che alle preghiere rimanda alle comitive un po’ sbracate di certi lunedì di Pasqua, ai fiadoni di ricotta, alle palomme con l’uovo nella pancia e ai mandorlini.
Sì, ai mandorlini.Â
Adesso nessuno li mangia piĂą, ma allora questi frutti in embrione, scorza vellutata e gusto asprigno, erano il preannuncio della stagione dei raccolti.
Forse anche la metafora di una giovinezza da assaporare in fretta, prima del rinsecchimento delle emozioni.
Dopo la chiesa, la via prosegue ampia e diritta.
I primi chilometri producevano tossine e riflussi gastrici. Poi la fatica si sintonizzava con l’avidità di esplorazione e lo spirito assumeva il controllo dell’organismo.
Così l’appagamento di un’esigenza interiore annullava le operazioni biomeccaniche e lo spazio era risucchiato da una volontà impalpabile e risoluta.
Pedalare nell’olio, questa era la sensazione.
E intanto a sinistra scorrevano le quinte arroventate della Parata, della Valle delle Streghe, di Bussi Vecchio, di Immacolata.
A destra, quasi un contraltare, si allargava la campagna.
Quel nastro sinuoso di argilla e di ghiaia minuta che i valloni hanno depositato attorno al Tirino.
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Proprietà polverizzate, colture improprie, accessi impossibili e continui abbandoni dissipano la produttività di queste terre, ma il colpo d’occhio è appagante.
Quel caos verdeggiante di vigne, di orti e di erba medica, assieme all’addensarsi rorido dei salici sulle sorgenti e sui canali, instillano una sorta di compiacimento per un’opulenza confinata entro spazi angusti, ma generosamente provvida.
Un’opulenza complementare ad altri redditi e perciò incassata senza l’angoscia endemica dei contadini. Â
Frutto di passatempi piĂą che di fatiche improbe.Â
Materia di vanterie da bar più che di accumulazioni circospette per l’invidia dei vicini e gli eventuali castighi di un cielo volubile e ingrato.
Un’opulenza laica, insomma.
Un bene in sé senza valori sottintesi e remore ataviche.
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E’ vero.
Certe riflessioni, anche profonde, finivano per armonizzarsi con i ritmi cadenzati della bici, ma agronomia e sociologa erano solo dei flash.
In veritĂ io passavo e, piĂą che vedere, sentivo il respiro caldo della cannavine a valle e delle padure piĂą a monte.Â
Percepivo il susseguirsi dei colori come spatolate decise su una tela espressionista. E intanto solcavo il riverbero tremolante dell’asfalto.
Mi eccitavano improbabili reminiscenza salgariane ogni volta che prendevo per la strada vecchia di Capestrano.
Lì, dalle parti di San Pietro.Â
Quella sorta di terra di nessuno che i capestranesi abbandonano ormai all’assalto dei rovi, dei sambuchi, dei pioppi e delle cannuccelle. Un rigoglio irridente di verde che cancella i bruni delle terre coltivate e si contorce a galleria sulle anse del fiume.
Un intrico di vegetazione e di suggestioni che induce un senso di inquietudine e fa risuonare il diapason di una memoria nutrita di jungle, di imboscate, di kriss, di tigri mangiatrici di uomini.
Più su ritorna l’arcadia, con sfondi di affreschi rinascimentali e rosoni romanici di calcare rugginoso.
Il tutto specchiato sulle trasparenze di ghiaia levigata e sulle flessuositĂ delle alghe smeraldo, verde cupo, pervinca. Â
Dalle impressioni tornavo alle riflessioni pedalando verso Ofena.
La piana di Ofena è dilatata, agevole, disegnata a riquadri regolari e, qui e là , spruzzata da getti di acqua nebulizzata che fanno lievitare, sul verde smagliante del trifoglio, tenui spezzoni di estemporanei arcobaleni.
Niente da spartire con la maledizione avara delle terre di Santo Stefano, di Carapelle Calvisio, di Calascio. Là  dove crescono solo ceci, cicerchie, lenticchie e quelle cupe insofferenze che preludono a frustrazioni, emigrazioni, nostalgie.
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Passare sulle stradine dritte della bonifica, per i campi appena arati e i filari ordinati di Montepulciano è, invece, un’esperienza che rinfranca.
Si intuisce quella dovizia provvidenziale destinata ad una comunitĂ laboriosa e assennata. Una comunitĂ invisibile, anzi assente.
Già , perché qui i contadini fanno i contadini e al pomeriggio se ne stanno saggiamente al riparo dalla canicola (mica come i turnisti della fabbrica per i quali ogni momento è buono per andare a darsi un’affacciata…).
E così, l’assoluta assenza della gente mi dava l’impressione di essere il solo a fruire di quel rassicurante presagio di abbondanza. Di raccolti ammassati a fugare paure ancestrali di carestie e di miserie.
Subito dopo si aggiungeva una inconsueta, euforizzante, forse istintiva idea di possesso che annullava convincimenti consolidati e riferimenti culturali.
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Padrone.Â
Ecco, ero padrone di beni e risorse patrimonio di una indistinta umanitĂ . Non ero destinato a soccombere alla fame. Potevo addirittura essere generoso e sfamare gli altri meno fortunati.
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Ma poi, insinuante, un pensiero.
Fra cento anni, fra mille anni – pensavo – un pomeriggio d’agosto altri scellerati in bicicletta passeranno da queste parti e vivranno l’esaltazione del possesso infinitesimale dell’eterno.
E la stessa terra, voltata e rivoltata, sarĂ ancora qui.
Un attimo, un brivido e via.
A pedalare sotto la solitudine pietrificata della Colonia Frasca, sotto gli ulivi ritorti di Villa Santa Lucia ed il profilo di Castel del Monte inciso sulle dorsali abbacinate di Monte Camicia.
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Favole, ululati, transumanze. Nobili dimore e nobildonne contese. Tormente e camini fumanti nel gelo. Gli ordinamenti e le faide. I saccheggi e le bonifiche benedettine.
Quegli scorci di montagna strizzavano sedimenti di letture archiviate e di racconti d’inverno, attorno a focolare.
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Ofena mi risucchiava nello stagno opprimente di calura che l’ha resa famosa.
Una volta partivano con la testa, folgorati dal “chiodo solare“.
Oggi serrano le persiane e si ripassano i fumettoni in bianco e nero di Amedeo Nazzari e Ivonne Sanson.
Un ronzio bisbigliante dietro il verde svanito delle finestre è il sottofondo estraniato di quelle stradine senza sguardi e senza curiosità .
Il piĂą delle volte le percorrevo a piedi.
A scoprire indisturbato quei particolari che decorano, con uno scarto di bizzarra creatività , gli stereotipi di un’architettura disadorna.
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E poi c’era il fascino patetico delle storie che abitano nell’oscurità di porte e pertugi sprangati. Le case degli emigranti. Oggi ci si vergogna un po’ di quel meridionalismo piagnone che rimesta le vicende che spopolavano paesi e regioni.
E li chiamano flussi di popolazione.
Ma quando un pomeriggio di agosto cammini senza scopo, con una bicicletta al fianco, allora le statistiche ridiventano storie di individui, di famiglie, di abbandoni e di propositi inattuali.
Il tutto intorno a quelle case che furono la patria, la memoria e gli affetti. Principio e conclusione di percorsi imprevedibili, alimentati da vaghe speranze e dissolti fra le lusinghe di una prosperità racimolata in uno store di Brooklin o in una farm australiana.
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Così, tra silenzi raggrumati e socialità impercettibili, tagliavo per le stradine a cordonata fino alla casa cantoniera, isolata e impudente nel suo amaranto eccessivo, all’ingresso del paese.
Ripartivo a ruota libera sulla vecchia provinciale.
Per tre chilometri: ombra a brandelli sull’asfalto rugoso, un venticello grato che calava da Forca di Penne e una sintesi di prospettive e tonalità che andavano dal grigio-giallastro a squarci di bruno e verde cupo.
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Una volta o l’altra il giro prevedeva una variante.
Il convento abbandonato dei cappuccini.Â
Ci arrivava una strada a pavè polverosa e la bicicletta sobbalzava impietosa.
Case e animali: silenzio irreale. I cani se ne stavano come zerbini, lunghi stecchiti, sotto l’ombra dei porticati e dei carretti a stanghe in su. Dalle due alle quattro né guardiani né intrusi. Una sorta di moratoria congelava i ruoli tradizionali: tu passavi senza precauzioni, i cani fingevano di staccare i loro finissimi sensori.
Taceva anche la fontana con i filamenti di muschio a ondeggiare a strappi.
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Tutto preludeva alla desolazione di quella specie di pellegrinaggio che stavo per fare al convento.
Entro, e il frullare allarmato dei piccioni è l’unico segno di vita.
Nel chiostro traboccano le piante di fico e nelle celle si ammucchiano gli avanzi di passaggi anomali e precari.
Materassi deformati e unti, fornelli incrostati e bottiglioni rovesciati, pile esaurite e riviste porno scompaginate.
La chiesa, poi, è smantellata. Dagli squarci del tetto la pioggia ha dilavato le pareti asportando ogni traccia di pittura. Il marmo, quello l’ha portato via la gente.
Resta il bianco sfarinato delle forme essenziali.
Le statue di gesso giacciono sbriciolate. Alcune, col busto ostinatamente eretto, sovrastano i frammenti di braccia e di teste staccatesi con le precedenti gelate.
Sull’altare troneggia, inutilmente enfatica, la raggiera dorata di un incolume Spirito Santo.
Ogni volta che vado mi riprometto di non passare piĂą. Poi la libidine da dissoluzione mi trascina di nuovo a profanare la quiete rassegnata di quei ruderi, la beatitudine definitiva delle pietre finalmente sottratte al fastidio di una funzione e restituite a una naturalitĂ senza protagonismi.
Solo luce, vento e qualche curioso pellegrino estivo.
Il ritorno verso Capestrano mi predisponeva al momento clou.
I chilometri e il pedalare alla lunga producevano fatica. Il sudore, però, vaporizzava all’istante nell’aria mossa e rarefatta. Per il corpo restava una sensazione di frescura.
Solo l’arsura impastava la bocca e raschiava la gola con intensità implacabilmente crescente. Veniva alla mente il desiderio, l’irrefrenabile bramosia di un gocciolante bicchiere d’acqua che prende dopo una notte di lussurie, di alcool e di sigarette.
Ecco, era proprio questo lo stato d’animo col quale, dopo aver scartato sorgenti e fontane varie, pedalavo verso Presciano, una delle tante polle del Tirino disseminate nella valle.
Dodici, tredici cannelle all’ombra di una tettoia di coppi.
Piene, turgide, sonore. Incessanti.Â
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A me piaceva la prima arrivando da Immacolata.Â
Sprizzava, senza la costrizione del ferro, da una fessura longitudinale della pietra. Copiosa e compatta, riempiva la bocca senza inondare la faccia di schizzi, si avvoltolava sul palato e si espandeva ristoratrice fra il cuore e le viscere. Un prodigio.
Ma il miracolo vero stava in quello zampillare dal muro di pietre accatastate.
Dietro la muraglia ruvida c’era la strada polverosa. Sopra la strada si inerpicavano i bossi e i ciuffi di timo che ondeggiavano bruschi alle folate radenti. Qui e là , tra le ristoppie e i muretti a secco di pietre ossidate, le cortecce intorcigliate dei mandorli .
Un paesaggio riarso, una monocromia polverosa che rendeva inverosimile, quasi soprannaturale una sorgente così prepotentemente copiosa.
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Insomma quell’acqua non mi pareva acqua.
E’ vero, c’era un’evocazione di percorsi sotterranei fra cavità buie e risonanti, ma c’era qualcosa di vitale e di eterno che rimandava a nutrimenti primordiali. Alla memoria di un’alma tellus che governa i destini dei viventi dispensando, secondo un disegno arcano, fluidi e risorse primarie.
FarĂ sorridere, ma in quelle frazioni di secondo mi pareva di conformarmi ad una gestualitĂ vagamente ieratica, da antichi cerimoniali, e bisbigliavo dentro improbabili formule rituali.
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E pensare che per settimane, per mesi a volte, su questa valle, su queste montagne carsiche non cade una goccia d’acqua.Â
Eppure sempre con la stessa quantità , la stessa temperatura, la stessa limpidezza l’acqua arriva ugualmente al fiume che ha scritto la storia, l’economia e la mitologia spicciola delle nostre terre.
Un miracolo senza dubbio. Un sentore di trascendenza che spiega il rispetto con cui l’immaginazione sintetizza le forma materiali e le sedimentazioni di atmosfere che il Tirino evoca.Â
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Il fiume: un percorso che spesso si indovina solo dall’addensarsi sinuoso degli alberi.
Sopra sta il cielo. PiĂą in basso le fronde asteniche dei salici. Poi la pellicola traslucida di umori liquidi e sfuggenti.
Il fiume è come un sipario perennemente abbassato. A un metro, due metri, sotto le alghe pigre è scontata la superficie concava e banalmente solida della terra. Uguale a quella che dalle sponde si allontana fino a risalire valloni e dirupi lontani.
Eppure con l’acqua che va nel suo flusso incessante, il fondo opaco è comparabile agli abissi ermetici della nostra ansia di conoscenza.
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Il fiume: dinamismo della materia, molecole fluide e ordinate.Â
Sintesi mirabile di sostanza e di inconsistenza. Metafora di un’umanità che avanza nel verso del destino, tra le forme di un paesaggio sempre uguale nel tempo.
Il fiume insinua la voglia di confrontarsi con l’eterno. Come le onde del mare e le nuvole che percorrono gli orizzonti e vanno lontano. Ne cogli l’esistenza in atto, ma ti sfugge il principio e non immagini la fine.
Ecco, nel bere a quella sorgente io carpivo porzioni significative di un patrimonio universale di sapienza ed il fiume, quella valle, quelle terre, diventavano il centro dei centri dei mondi percorribili.
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Magari nell’afa attonita d’agosto.
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ID34911 - 14/08/2013 14:53:42 - (Giacomino) - La terra é di chi la sa amare
Non mi vergognerò più di emozionarmi nei luoghi dei miei ricordi. Ancora grazie Profesur.