Ha cominciato Carlin Petrini ad associarlo al cibo. Una ventina d'anni fa. Da allora slow č diventato un prefisso factotum. Magari un po' forzato, come il mio slowvalley...
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...Che non è una vallata del Montana o un canyon del Colorado. E’ banalmente la nostra Vallesabbia percorsa senza fretta. Facendo passare paese per paese.
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L’alternativa è il percorso della variante.
Se non fosse per un residuo di pudore, si potrebbe azzardare un “ fastwalley”. La imbuchi a Tormini e arrivi liscio a Ponte Re.
Un susseguirsi di gallerie, viadotti, gallerie, ponti, svincoli di qua e di lĂ , e ancora gallerie.
Dopo il tramonto, quando i tir si fermano ai piazzali, si va ancora piĂą spediti. In ogni caso i paesi sono spezzoni di cartoline. Immagini arraffate. Occultato Vobarno, di Sabbio si intravede la cava. Avvistabile qualche scorcio di Preseglie, in lontananza. Barghe, un minitappeto di tetti e comignoli.
Ecco diciamo che l’altra sera non avevo fretta e a Tormini ho imbucato la vecchia, rugosa, rallentata provinciale.
Invecchiando è quasi una sfida ripercorrere i luoghi della memoria. A resuscitare immagini, stupori e riflessioni. E qualche incazzatura.
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Alla prima rotatoria, a Roè, ho rivisitato il pratone delle giostre. In ogni paese ce n’era uno. Si somigliavano tutti per degrado e abbandono. Per un’apparente inutilità . Tranne quando arrivavano le autine, i tirassegni, i calcinculo. Chiassosi e colorati. Effervescenti di gioventù.
Ricettacoli di estroversioni e devianze borderline. Di pseudobulli e aspiranti gnocche. Di quel melting pot, insomma, che oggi si ritrova a far casino negli spazi franchi della movida.
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Collio è un’anticipazione di Vobarno. Altro mondo. Due civiltà diverse. Quella del ferro e quella del legno. Anzi della legna.
La legna è una forma di energia, oggi si direbbe biomassa, fornita dai boschi. E i boschi s’intrufolano nel paese. Partono dai cortili di casa e si rincorrono a perdita d’occhio, fino ad affacciarsi sul Garda.
A Collio la legna era accatastata ovunque. Quasi mimetizzata fra case, capannoni, recinzioni e segherie.
SarĂ un riflesso ingenuo, ma l’abbondanza di legna vellica l’immaginario e suscita un compiacimento antico. Quello di sentirsi al riparo dai rigori. Del clima e della vita.Â
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A Collio mi fermavo spesso a prendere il giornale.
Al mattino s’incontra sempre un’edicola con i requisiti giusti per decidere una sosta. Per esempio una famiglia sfacciatamente over size. Padre, madre e figli. Senza differenza di genere o di anagrafe.
Tutti di grande stazza, ma non aitanti. Carnosi ed empatici. Con una certa cadenza veneta. Con la quale declinavano i frammenti di cronaca più efferata e strillata dei fogli locali.
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Di Vobarno ti sorprende l’acqua.
Tanta. Tra fiumi che si scindono e torrenti che confluiscono. Fra ponti, paratoie, argini e canali.
Di là c’è il paesone. Uniforme e grigio. Come certe periferie inglesi nelle stampe dell’800.
Unico scorcio, quel ponte stile canal grande che lo congiunge alle architetture nevralgiche del Municipio e della Parrocchiale. Sulle spallette restano gli attracchi delle chiatte che navigavano il fiume a caricare ancore e ferrarezze.
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Ma è sulla destra che t’aspetta un must spiazzante. Il tazebao del Paris. Quell’aforisma da vetrina che ti frega sempre.
Perché quando sali hai l’occhio al semaforo più avanti. Quando scendi hai la fila appiccicata dietro. Morale: o sbirci la premessa o vai alla conclusione. Se torni di notte se ne parla un altro giorno. Non c’è fretta, quelle pillole di stralunata saggezza son fatte per durare. Più corte di un twitt, più longeve di un manifesto.
Bizzarrie pensose rivolte a un target itinerante, ma immutabilmente curioso.
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La Falck, dissoltasi nel tempo, ha lasciato al suo posto forme e ingombri. Spariti tubi, serbatoi e ciminiere, resta una parata di fabbricati imponenti e qualche reperto riadattato. Magari a teatro o biblioteca. Per quelle provvidenziali eterogenesi che fanno sopravvivere certe costruzioni, modeste e marginali, per compiti più elevati.
A nord la Falck ha cambiato pelle e, sotto una scorza verdognola accoglie la perfidia d’una mutazione. Via la rude compattezza dell’acciaio, dentro la plastica. Ah, se si svegliasse Giorgio Enrico !
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La centrale festeggia il ritorno del Chiese nel suo letto schiumoso.
Dopo il buio della galleria e le condotte forzate. Più avanti sorge un pianoro. Prima dell’epoca dei mega capannoni, appariva solo uno striminzito skyline di casette e la punta impacciata di un campanile.
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Carpeneda.
A salirci scoprivi uno slargarsi di prati e di boschi. Di carpini, ovviamente. Gli amici di Vobarno ci andavano spesso a trà a agli uccellini dello spiedo. Ogni tanto a sbaraccare. Alla tavernetta munifica dell’Enzo e dell’Enza.
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Sabbio t’aspetta al varco. O meglio, al semaforo. Tutto quello che vedi prima è solo la conferma delle doglianze di un certo ambientalismo. Sullo scempio del territorio. Campi invasi da villette e condomini. Sciattamente. Schiere di tetti in fila e colori smodati. Lo squarcio polveroso di una cava.
Quando finalmente rallenti si svela una singolare scenografia d’antan.
Due fiumi e due ponti. In una fuga di piani e contropiani.
Un contorno di salici e di pioppi.
Una quinta irregolare di caseggiati terra-cielo.
Una fuga verso l’alto di spioventi di coppi.
Un ricamo di rade finestrelle asimmetriche.
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Fino a impattare sullo sfondo, col solitario dirupo che sostiene la rocca a strapiombo. Una staticità allarmante, un’energia in bilico , un monito alla mediocrità umana. Qualcosa di analogo all’Isola dei Morti di Arnold Böcklin.
Prima del terremoto la piazza era delimitata dal decoro ocra-stinto del palazzo comunale.
Un aplomb umbertino che faceva pendant coi finestroni della centrale un po’ più avanti. Insomma una combinazione di scorci e prospettive che componevano l’ oleografia armoniosa d’una Sabbio virata seppia.
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Quando si dice un nume tutelare. Ai tempi d’oro di tondini e maniglie Barghe aveva il suo eroe eponimo. Benedetto.
Benedetto era il posto in cui andare a certificare uno status. A soddisfare un gusto bisognoso di gratificazioni elitarie. Benedetto aveva scoperto la formula.
Geniale precursore del prodotto di nicchia e del chilometro zero, era riuscito a fornire i piatti della tradizione facendoseli pagare il triplo.
Istrionico, compiacente, allusivo, adulatore. A volte invadente e un pò arrogante. Benedetto era soprattutto un affabulatore scaltro e sottile. Capace di ritagliare sul profilo di ogni cliente le proposte più convenienti. Per sé ovviamente. E così nell’immaginario di valle Barghe era percepito come il paese di Benedetto.
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Barghe in realtà è una miniatura di paese. Frammentato e disperso alla destra del fiume. Addensato a sinistra.
Quasi un cunicolo di facciate, di portoni e di balconi di pregio. Anneriti e graffiati dai camion in transito. Quando poi un tir della ferriera incrociava la corriera erano cavoli. Per convenzione a Barghe si procedeva a strappi. Cioè quasi fermi.
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E fatalmente, allora, l’occhio andava al murales dello scandalo. Sulla destra, subito dopo LISA SCAMPOLI . Per carità , niente di osceno o di grossolano. L’affresco richiamava temi importanti. I personaggi, distinti. Gli atteggiamenti, autorevoli. L’ambientazione, signorile.
E poi colori decisi e sfondi luminosi. Insomma un bel dipinto.
Se non fosse per quel piattino di piombo della Sip che una squadra benemerita gli aveva piazzato proprio in mezzo. Veniva da pensare sconfortati – ma come si fa a sfregiare un’opera d’ingegno per non dire d’arte) pur di risparmiare un paio di metri di cavo? E, subito dopo, - possibile che in tutto questo tempo nessuno che abbia invocato un intervento?? -
Non molto tempo fa lo scandalo è stato rimosso, ma il nerofumo s’è portato avanti.
Di forma e di colori quasi non c’è più traccia.
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San Gottardo è un varco aperto dal Chiese fra due opposti contrafforti. Una lotta fra elementi primordiali. L’acqua e la roccia.
Eppure l’uomo s’è scavato un passaggio. Rosicchiando una parete a picco. Tanto per passare di là . Con i suoi carri, i suoi commerci.
Ho sempre pensato che la chiesetta accoccolata in basso servisse a rassicurare il viandante da quella ponderosa minaccia . O a rabbonire gli spiriti della montagna offesa.
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Di Nozza scorgi subito la Rocca.
Si chiamano tutte così, ma sembra quasi un ossimoro. Ammettiamolo. Niente bastioni, infatti, né feritoie, né piazzole per l’artiglieria. Ruderi e basta. Svettano intatti, pacifici campanili e chiese.
A vigilare su morale e costumi dei fedeli, più che su possedimenti e invasioni. Nozza è un crocevia. Un luogo di incontri e di scambi. Di mercato.
Un tempo ci si aggirava fra richiami e brunalpine, sgalber e restèl , polente di Storo e formaggelle delle Pertiche.
Oggi spadroneggiano le cineserie lowcost. Rari gli esemplari del popolo della montagna. Quello della panda quattroperquattro, che la và amò come un treno.
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Non c’è più la Cicci.
La Cicci era una sorta di genius loci. Il luogo della seduzione soft. Dell’allusione procace. Una sponda per gli insonni e un approdo per gli assonnati. Al loro rientro all’alba. Dopo raids dissennati e beatamente alcolici.
Perché la Cicci dispensava sorrisi e amari. Ammiccamenti e brioches. Cappuccini e tette. Un appeal casereccio a metà fra Playboy e Botticelli. La Cicci era la casta dispensatrice di fremiti e illusioni. Giusto quello che cercava il popolo visionario della notte.
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Un tempo la brina era la brina. Nomen omen.
Oggi la brina fatica a trovare un metro dove posarsi. Vestone ha fagocitato Nozza con una lunga teoria di parcheggi, di vetrine e insegne. Manca soltanto quella fatidica dell’AVE.
Resiste, invece, quella disadorna dell’Agnello, locale cult di una certa intellighenzia. Quella che irrompeva dopo i cineforum a dibattere appassionata, tra una portata e l’altra di tonno, fagioli e sigole.
In fondo alla Capparola c’era un incontro strano.
E’ ancora lì un piccolo tunnel. Inusitato e incongruo. Qualche decina di metri a bucare uno sperone di roccia. Senza motivo. Se non quello di aprire il percorso a un mitico fantasma del passato. Il trenino che congiungeva Tormini a Lemprato.
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Subito dopo, la maestĂ della corna.
Solenne e cangiante. Su uno zoccolo morbido di profili verdi. Al centro la mole superba della parrocchiale. Bianca e svettante. Con uno sciamare di tetti che vanno in su e in giĂą. Fino alla processione di salici che accompagnano il fiume in basso.
Una scenografia con tante varianti. Dall’alba al tramonto. Fra una stagione e l’altra. Con la neve spolverata sulla cresta e quella compatta su canaloni e guglie. Con il ribollire bluastro di uno scroscio d’agosto. Con l’afa caliginosa che appiattisce e scolora. Mettici una cornice e hai tutta una serie di vedute alla Edoardo Togni. Lavenone è una cartolina che incanta, ma si attraversa in fretta.
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Non prima di un sobbalzo per la famosa scritta. Ma sì, “NOI SOGNAMO L’ITALIA ROMANA”. Quello sberleffo a bitume indelebile. Quel pugno allo stomaco per automobilisti in transito.
Aveva resistito all’iconoclastia antifascista per quaranta anni. Fino all’elezione di un sindaco di sinistra. Un po’ anarchico, un po’ comunista.
Colpo di scena: la scritta è rimasta al suo posto. Ma intorno campeggia un murales lugubre, desolato, straniante. A tinte slavate, dolenti. Un mix che fornisce la percezione giusta: informazione sul passato e ammonimento per il futuro.
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Subito dopo la strada accelera verso Idro.
Ma c’è il tempo di sbirciare sotto il ponte. Dove si andava per trote. Al minivivaio dei fratelli Assoni. Bastava il raspare sulla ghiaia per farne materializzare uno. Due secondi e appariva l’altro. Massicci e ingobbiti. Con l’armamentario già nelle mani ispessite dalla forgia e deformate dall’artrosi.
Seguiva un balletto goffo, ma ordinato. Truce, ma accurato. Era uno spettacolo quel tandem infervorato.
A pescare col guadino nelle vasche: di qua l’iridea, di là la salmonata.
A tirar su le misure giuste, a fracassare le teste col randello, a pesarle. E subito dopo a sforbiciargli la pancia per snettarle, risciacquarle e impacchettarle. Non prima d’aver rovesciato nelle vasche ribollenti le viscere avanzate.
Dal saluto iniziale al commiato, non una parola, se non il peso richiesto e la somma dovuta. Due ineffabili Buster Keaton. Che pure avevano tanto da raccontare.
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Sotto un accrocco di tetti sbilenchi era custodita la necropoli fossilizzata di un’antica officina.
Ruote, canali, pulegge, giunti, tramogge. E quel maglio adunco come il becco di un fenicottero. Meraviglia delle meraviglie. Tutto polvere e abbandono.
Era la fucina del rame. La sola della valle. Vi si forgiavano i paioli. Sei o sette l’uno dentro l’altro. Dal più grande al più piccolo. Come le matrioske. Una lavorazione che sapeva di talento, di tecnologia e anche un po’ di magia.
Una start up di qualche secolo fa che arrivava ai mercati piĂą lontani.
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Da ragazzo capitavo qualche volta da Enrico “la Rincicula”, l’ultimo pastore rimasto al mio paese. Famoso per il suo pecorino canestrato. Una volta l’ho trovato a smanettare con un paiolo enorme.
Di rame. “ Robba fina – mi fa – quiss vè da Brescia!". Che dire, forse allora le strade d’Italia erano più corte.
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C’è stato un tempo che progettavo di raccogliere e raccontare le storie di eccentrici, disillusi, sconfitti, inconsueti e sopravvissuti.
In una parola di alieni in una valle che macinava conformismo e interessi a ritmi febbrili.
I due fratelli Assoni avevano giĂ un capitolo intitolato.
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Quello della Carola, purtroppo, l’ho già scritto.
Carola è l’ultima vetrina prima della meta. Quella di una cara amica.
Quando passavo era d’obbligo un cenno di saluto.
Ora è tutto a posto. Gli spazi, gli arredi, le luci, il glamour. Il suo nome sull’insegna. Come dettava il suo gusto di irriducibile protagonista.
Di lei resta soltanto quell’aura ricercata e snob ch’era la cifra del suo temperamento.
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Pino Greco
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ID33557 - 01/07/2013 17:30:00 - (roberdux) - LAVENONE
“NOI SOGNAMO L’ITALIA ROMANA”........................una delle fabtastiche frasi della vallesabbia..........DUX MEA LUX