A Casto, su e giù per un ventennio
di Pino Greco

Lo ammetto, Casto da tempo aut. Fuori dai giri. Quando risalgo la valle tiro per Vestone, per Idro, per la montagna. Difficile svoltare a Nozza...


L’ultima volta è stato per un mesto pellegrinaggio. La donna di un caro amico.
Pare che i funerali siano una delle poche occasioni  per tornare nei luoghi della memoria. Nei posti del cuore.
Quel pomeriggio, sul sagrato di una chiesa troppo piccola per contenere un lutto importante, ogni tanto uno sguardo di intesa, una pacca sulla spalla. Riconoscimenti complicati dai guasti del tempo. Ma suggellati  da un saluto.
Il saluto è la reciproca attestazione dell’esistere. A dispetto degli anni e delle distanze.
 
A Casto ho fatto su e giù per un ventennio. Il tempo di accogliere a scuola i figli di ex alunne e  di accompagnare al cimitero ex ragazzi già quasi adulti. Spezzati da mali incurabili, incidenti, overdose.
Il tempo di imparare gli scotöm delle famiglie e gli sfottò  fra i borghi, le ripicche  politiche e i risvolti oscuri di certe fortune.
 
Il tempo di imparare la differenza fra Sant’Antonio e Sant’Antunì. Rintracciando le radici di una tenace cultura contadina e di uno stile di vita incline al ruspante e al godereccio. Passando per la sana mangiata, la bella cantata, l’allegra ballata e tutto ciò che ne consegue. Insomma il tempo di sentirmi a mio agio. In sintonia.
 
Poi la vita offre altre opportunità ed è sciocco rifiutarle. A Casto tornavo di solito a fine giugno. Per lo spiedo di chiusura a scuola. Qualche volta passavo in bici. A scendere o a salire. A seconda se venivo da Mura o c’ero diretto. Quando scendevo ci scappava una visita a Luciano. Luciano era un prototipo di bidello-imprenditore. Un ibrido made in Casto. Il solo che nel piazzale delle medie, fra Ritmo, R4 e Alfasud, faceva luccicare le cromature del suo Bmw. Ogni volta era un ragguaglio minimo farcito di gossip e di groppello. Poi, nel riavviarmi, mi  inseguiva per infilarmi un salame nel marsupio da ciclista:  – Sacramento!  Ciàpel che  l’è chel che gô fat me…  

A Casto c’ero arrivato per caso. Allora, nelle graduatorie, se non indicavi una sede ti appioppavano i posti più scomodi. Bagolino, Tremosine, Bovegno, Corteno Golgi, Ponte di Legno o Casto, per l’appunto. D’ufficio. Il primo giorno, nel salire, costeggiai  il  piazzale di una ferriera agitato da bandiere e cartelli. Pensai: il posto giusto. Avevo già una tessera in tasca. La stessa di mio padre e di tanti suoi compagni di  fabbrica giù  al mio paese. Ma di Marx avevo letto solo il Manifesto e di Gramsci le Lettere ai parenti stretti. Il mio viatico era Don Milani, con la sua scuola di Barbiana.
 
Non vedevo l’ora di raccontare la favola delle mille parole in più che conosce il padrone per fregare l’operaio. Lo so, oggi farebbe ridere, ma allora, tra reduci del ’68, si dava per scontato che il riscatto sociale passasse attraverso l’elevazione della cultura. E che l’obbligo della mission spettasse agli insegnanti. Solo più tardi ho realizzato che il picchetto di quella mattina fatidica veniva da fuori. Da Odolo o da Vobarno. E che a Casto lo sciopero non era nelle corde. Ma l’imprinting fu decisivo.
 
Casto, dai maestosi laminatoi ai sottoscala, dalle presse alle minuscole spazzolatrici, era un cantiere diffuso e infervorato. Prevaleva la mistica del lavoro, anzi, del laurâ
I ragazzi più svegli al loro ingresso a scuola si erano già sorbiti un’oretta di spazzole.   Si vantavano di guadagnare più dei professori. Non ci voleva molto. Di orientamento dopo la terza media neanche a parlarne.  Per salvare le cattedre di lettere, quando il latino era facoltativo, dovevi pregare in ginocchio almeno un volontario.  A me riuscì col Giacomo.  Per intercessione dello Stefano. Suo padre e Direttore Didattico. Of course.
 
Insomma, era dura insegnare. Soprattutto per certe discipline. Eppure si inventava di tutto per suscitare un interesse, per creare motivazioni, per fluidificare il linguaggio, per scrostare diffidenze e preconcetti, per fornire chiavi di lettura dell’universo  massmediologico. In definitiva, per accrescere autostima e padronanza nella  relazione con gli altri, col mondo. Gli strumenti, i più disparati. A volte rudimentali.
 
E’ certo, comunque, che prima ancora che arrivassero professorini allevati a feedback, epistemologie e tassonomie varie, a Casto si erano già sperimentati laboratori sulla stampa, sul fumetto, sulla televisione. Si erano perfino realizzati un fotoromanzo e una commedia in dialetto. Alla buona, ma con esiti di tutto rispetto. Si godeva di una delega ampia. Le famiglie si fidavano e c’era permesso di tutto. Col Valerio si mettevano in piedi tornei estemporanei di calcio, di pallavolo, escursioni sul Savallo, gare di orienteering, abbuffate al fienile di questo o di quello. Una volta mi toccò di improvvisare una carbonara per ventisei.
 
Perfino i Giochi della Gioventù avevano una procedura semplificata. Nel senso che, pulmini o non pulmini, si caricavano i ragazzi sulle nostre auto e via. Senza l’assillo di autorizzazioni e coperture assicurative. Senza pretesa di rimborsi. Ma quando mai!.. Due righe sul diario e via. Alla fine qualche teorema in meno, qualche poeta saltato, ma più spazio per la socializzazione di ragazzi destinati a un inserimento precoce nel lavoro. Gravati da una smania di affermazione individuale. E di successo economico. A tutti i costi.
Del resto l’identikit antropologico di Casto era un mix di laboriosità montanara, di genialità valsabbina e di spregiudicatezza lumezzanese. Il tutto ispirato a una sorta di calvinismo intrufolatosi chissà come in queste vallate.
Resta il fatto che in vent’anni ho visto ruspe e scavatori inerpicati dappertutto, a ricavare uno slargo o una piazzola per la moltiplicazione bulimica di capannoni e capanuncì .

Un infaticabile paese-fabbrica, quindi. All’apparenza l’esemplificazione di un famoso incipit di Giorgio Bocca: “ Il lavoro per fare i soldi, per fare i soldi, per fare i soldi…”.
Una forsennata rincorsa alla crescita e all’accumulo. Un rude darwinismo sociale che, però, nel tempo ha selezionato abilità e veri  e propri talenti.
Due senatori, per esempio. Uno del Regno e uno della Repubblica. Ma anche un re dell’acciaio e Presidente della Confindustria. Per ultimo un imprenditore un po’ temerario che, calato dalla frazione più in quota, è riuscito a dare lavoro a mezza valle. Scalzando dall’immaginario vecchi miti come l’Ave e la Falck.
 
Già, le frazioni. Quel mosaico di borghi che stentavano ad arrotondare duemila abitanti, ma che quando bastava una piazza, un campanile e monumento per fare un paese, passavano, appunto, per paesi. Fatti e finiti. Alcuni addirittura comuni a sé. Non era la stessa cosa che un ragazzo provenisse da Malpaga, da Comero, da Briale o dalla remota Alone. Finis terrae del continente castigiano. Vigilata  da un pretenzioso Leone di San Marco. Casto-Casto aveva un aura di sinistra. E quindi trasgressiva e mangiapreti. Le frazioni in alto crescevano all’oratorio e votavano compatte Diccì. Per Alone, addirittura, si sospettava qualche cromosoma infiacchito per via della consanguineità. Gli si imputavano perciò indolenze, ritrosie e stravaganze.
 
Anche la scuola è stata un vivaio. Sei o sette dirigenti rifluiti in valle, in città, in altre valli. Non c’è evidenza scientifica, ma l’ipotesi è che l’humus competitivo abbia contaminato anche il pacioso contesto scolastico, vellicando ambizioni e carriere. Ecco spiegato il fenomeno di una scuola piccola che sforna un numero esagerato di presidi. Tutti ostinatamente fieri di una provenienza scarsamente prestigiosa, ma decisamente identitaria.
 
C’era un posto per i rendez vous dei reduci. Valduppo. Una landa senza appeal dove l’esercito scaricava gli obici d’artiglieria. Prima di rivenderli in medio oriente, come rottame.
Per essere ricaricati alla bisogna o riportati sottobanco a Casto, nelle voraci fonderie di ottone.
 
Ebbene, in una sorta di promontorio boscoso aveva allestito un baitél  il nostro Luciano Manarì.
 
Era il posto degli ex. Presidi, professori, bidelli e precari in cerca d’iniziazione. Per sbaraccare. Deliberatamente.
 
Perfino l’Alfredo, con le sue fisime salutiste e gli impegni inderogabili, rimaneva oltre il caffè e la grappa. Con l’immancabile riproposizione del suo leggendario “birôch”. Arrivava spesso don Ottorino. In coda, per riguardo alla tonaca e al suo fegato, ma arrivava. Ad assestare il colpo di grazia. Col suo micidiale bottiglione di vin santo.
 
Attorno a quelle tavolate si intessevano conversari effimeri, rievocazioni commosse, divagazioni divertite e amichevoli perfidie sugli assenti di turno. Ma intanto si cementava uno spirito di appartenenza che, a distanza di anni, ancora ricongiunge i percorsi sconnessi delle nostre esistenze.
 
C’è da dire che l’incubatoio di questo amalgama esistenziale, professionale e affettivo più che la scuola è stata banalmente la tavola. Il ritrovarsi un paio di volte al mese rilassati in osteria faceva emergere personalità e storie, smussava diffidenze, rivelava affinità e faceva fermentare progetti comuni. A volte anticipava decisioni ascritte alle formalità collegiali.
 
Non esistevano ancora i pranzi di lavoro, allora. Esisteva la vecchia, sana, dimessa osteria. Rigorosamente senza H. Quella con il calendario dell’Arma, la volpe impagliata e il poster dei funghi buoni e cattivi.
 
A Casto c’erano le sorelle Garatti. La Gemma e la Nina. Infaticabili, scaltre, prosperose. La creatività difettava, ma la sostanza era appagante.
I casoncelli e le grigliate straripavano, il vino andava a fiaschetti. Le erbe e le conserve, ciao che chilometri zero.
Un pezzo di orto decorava perfino l’ingresso, come un’aiuola. Il tutto per lire settemila. Esentasse, ovviamente.
La parabola delle sorelle Garatti è il paradigma della crescita del paese. Negli gli anni settanta, ottanta e poco oltre.
 
Da una stamberga seminterrata all’imponenza vintage di Palazzo Passerini. Retaggio del mitico Senatore e must architettonico della piazza principale. Anzi, unica. Già, perché la morfologia dei luoghi, ruspe o non ruspe, ha sempre inibito lo sviluppo orizzontale dell’abitato. Dando origine a grumi di ville e villotte, appollaiate su declivi e terrazzamenti. Collegate da rampe mozzafiato.
 
Negli anni ’90 il mio baricentro s’era spostato altrove. Ma passavo spesso a registrare i segni del cambiamento. Da una parte il miraggio del low cost dietro le chimere della delocalizzazione. Dall’altra la diffusione del prefabbricato high tech. Ordine, funzionalità, insegne sgargianti. L’effetto più vistoso, il restyling dei vecchi laminatoi. Via vedute rugginose e inquietanti. Dentro, una provvidenziale mano di tinte rigorosamente pastello. Dal verde-prato all’azzurro-cielo. A cominciare dal muro di cinta.
 
Intanto le seconde e le terze generazioni accrescevano i fatturati e sceglievano un nuovo affaccio alle loro dimore. Non più le angustie del savallese, ma gli ampi orizzonti del Garda. Sparita la generazione di quelli che davano del “Gino” al boss, la percezione della Lucchini trasmutò in realtà prima cittadina e poi multinazionale. Infine proprietà di misteriosi oligarchi russi. In buona sostanza lontana ed estranea. Cambiavano anche le modalità di vita. In disuso il vecchio mulino ad acqua. Trasformato in museo il patriarca dei magli. La terza media non più limite invalicabile degli studi. Approdo di competenze innovative e perfino una timida apertura all’ambientalismo. Quello tanto esecrato dei verdi rompicoglioni che salivano dalla città con la fissa degli archetti.
 
Ricordo gli sforzi vani sull’argomento caccia. Un mantra che riproponevo ad ogni nuova classe.
Attenti, ci sono milioni di uccelli che passano tutto l’inverno quaggiù..- bacchetta sui tropici- E sei mesi quassù.- bacchetta sul nord Europa- si spostano alla ricerca di cibo e di un clima migliore- In autunno,  nello scendere sorvolano la valle per qualche giorno. Quando sono stanchi cercano un ramo dove posarsi. Magari illusi da un richiamo . E in quel momento, dalla feritoia di un capanno: “pam-pam“ Fine del volo. E allora ti chiedo (sceglievo a caso, ma l’esito era scontato) che diritto hai tu di accoppare quell’uccello che vive sei mesi quaggiù e sei mesi li su e passa a Casto appena un giorno o due ?
Era un disastro. Era il momento in cui la logica s’infrangeva contro il più radicato dei tabù. Non c’era verso. Una frustrazione unica.
 
Il 28 maggio scorso, in Piazza Loggia incontro la metamorfosi ingrigita e un po’ imbolsita di uno degli innumerevoli Freddi passati nelle mie classi. Uno di quelli che ti tenevano lo sguardo puntato. E non si capiva se per attenzione o straniamento. Mi ragguaglia. Sposato, separato, tre figli  e suv d’ordinanza. Così, tanto per andare a sparare qualche colpo. In bassa Italia. Come si continua a indicare l’Italia sotto il Po.
- E adesso che fai ?
- Sindacalista, professo’…Cgil ! –
- E bravo ! questo l’avevo intuito.  E come mai ? –
- Beh, con certi discorsi che faceva el nos professur, comunista !...


Cazzo, e pensare che, tranne qualche scaramuccia sul divorzio, con don Ottorino, e l’adesione puntuale agli scioperi, in genere stavo defilato. E in classe, in ogni caso, mi guardavo bene dal portare L’Unità. Bah, si vede che certe antenne innocenti captavano anche quello che cercavo di dissimulare. E la famosa mission ha lasciato comunque qualche seme.
 
 
Pino Greco
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