Alle radici della guerra
di Dru

«Pretendere di estirpare la guerra senza estirpare ciò che la provoca è una grande illusione».

 
La realtà é come stanno le cose o come vorremmo che stessero?
Aristotele diceva che "la guerra è giusta in vista della pace" e poiché giusto é "conformarsi a come stanno le cose", nel tempo dei valori e delle verità assolute, quando ancora la ricerca era nel senso dell'incontrovertibile, la guerra era cosa giusta se per la pace, come valore appunto, nel senso di adeguamento a come stanno le cose, quelle appunto incontrovertibili, inoppugnabili, di verità.
 
Se nel nostro tipo di cultura - si tratterà poi di vedere se questa sia l'ultima parola - una verità assoluta non ci può essere, allora una pace che sia giustizia non ci può essere.
La giustizia non può essere che l'adeguazione alla maggior forza.
Quindi la definizione di Aristotele è legata a una base culturale che oggi è tramontata.
 
Se non c'è la verità, perché non dobbiamo distruggere gli uomini?
Se noi ci domandiamo: ma perché siamo arrivati a questo punto?
Allora, la risposta è che la guerra non vien fuori perché disobbedisce ai buoni dettami della buona cultura e della buona volontà, perché questo è il discorso che è in circolazione.
Si fa la guerra però la grande cultura, le grandi religioni ci insegnano, o le buone volontà ci insegnano che non si dovrebbe fare la guerra.
Se si va all'origine, non è che la buona cultura sia tradita dalla guerra, ma la grande cultura tradizionale è la radice della guerra.
 
Combattere la guerra, senza estirpare questa radice, è impossibile, contraddittorio.
E in questo senso la guerra è un qualche cosa di inevitabile, perché l'abbiamo nel sangue. L'abbiamo nel concetto per il quale le cose sono manipolabili, sono costruibili, sono distruggibili, sono modificabili, sono effimere, caduche.
E allora sono lì a nostra disposizione.
 
Eraclito diceva che "la guerra è la madre di tutte le cose".
Ma, se noi intendiamo le cose - le cose: io, tu, la stanza, la città, le stelle, le piante, eccetera, gli animali, gli uomini - se noi intendiamo le cose come ciò che si lascia manipolare, modificare, distruggere, allora dobbiamo rovesciare la sentenza di Eraclito, dire: "le cose sono la madre di tutte le guerre". 
Il modo in cui si intende la cosa, nella nostra cultura, è la madre di tutte le guerre.
Cioè il modo in cui noi intendiamo l'esser cosa del proiettore, della lampada, dei miei sentimenti, del suo corpo, eccetera, ecco, il modo in cui noi intendiamo la cosa, cioè come manipolabilità assoluta, questa è la radice di tutte le guerre.
 
Pretendere di estirpare la guerra senza estirpare ciò che la provoca - e ciò che la provoca è la nostra grande cultura - è una grande illusione, ma anche un'illusione pericolosa.
Certo. Prendiamo un organismo malato, malato di una malattia inguaribile. Questo organismo ha delle fasi di cui la malattia si fa esplicita, si rende esplicita, in cui la malattia diventa visibile. Questa è la guerra.
Ci sono delle fasi in cui la malattia non vien fuori alla luce del sole. Questo si chiama pace.
Ma questo non vuol dire che la radice della malattia sia stata estirpata.
La parola "pace" è la parte di una situazione globale che ha alla propria radice la forma più radicale di guerra.
 
Platone chiamava la "cosa" epamphoteristés.
Vuol dire: ciò che oscilla delle cose dal niente all'ente, qui c'è la parola éris. La parola éris è quella che usa Eraclito quando dice che la guerra è madre, - usa la parola  pòlemos - dice che "tutte le cose avvengono secondo guerra".
Allora la cosa, in quanto è oscillante tra l'essere e il nulla, combatte e si dibatte tra l'essere e il nulla, è la polemicità per eccellenza, è la violenza per eccellenza: Quindi ciò che corrisponde nella metafora a corpo ammalato è il modo in cui noi pensiamo le cose.
 
Questo modo a volte si presenta come guerra, a volte si presenta come pace, ma è una pace dei morti.
Non sono tanto io a parlare, ad affermare questa caduta dei valori, ma è la filosofia degli ultimi duecento anni. Il che vuol dire che dopo Hegel, tutti coloro che hanno pensato - tiriamo via dalla mente l'idea che la filosofia stia da una parte e la scienza e la tecnica stiano dall'altra; no c'è una congruenza di fondo - tutti coloro che hanno pensato, quindi: Marx, Kierkegaard, soprattutto Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Dewey, Bergson, Gentile e Croce in Italia, ecco tutti quelli che hanno pensato sono arrivati - e questo è un tema che a mio avviso è più importante di tutti, perché decide di tutto - sono arrivati a questa conclusione: che, se esistono dei valori assoluti, non può esistere questo mondo in cui noi viviamo.
Questa è la faccenda.
 
Se esiste un blocco, come può essere il Dio, come può essere il valore assoluto, quelle cose cui noi siamo - per la nostra educazione, anche religiosa - siamo legati, ecco, se esiste quel blocco, noi non possiamo esistere.
Nietzsche diceva: se esiste un Dio creatore, io non posso creare. Ma io creo, lo vedo, io produco, dunque non ci può essere un Dio creatore.
Allora non sono io che sostengo la caduta dei valori.
Parliamo della crisi dei giovani, i giovani stanno fiutando adesso quello che è stato raggiunto dall'alta cultura dell'Occidente, dai vari Nietzsche e Leopardi. I valori cadono.
Quindi non sono io che mi invento la caduta dei valori. È tutta quella cultura del nostro tempo, contro cui polemizzano le forze tradizionali.
Per esempio, contro cui polemizzava lo stesso socialismo reale, contro cui polemizza tuttora la Chiesa Cattolica.
 
Voi lo sapete che dopo la Seconda Guerra Mondiale, la musica dodecafonica venne proibita dal Partito Comunista Sovietico, perché la musica dodecafonica era un modo di esprimere, sul piano artistico, quella caduta di valori che noi conosciamo bene sul piano pratico, comportamento pratico, che vuol dire poi divorzio, eutanasia, fecondazione artificiale, ingegneria genetica, vuol dire lo smottamento delle stabilità.
Nel campo della musica dodecafonica voleva dire lo smottamento della stabilità tonale, ritmica.
 
C'entra con la guerra! C'entra con le cose che stavano e stanno per tramontare, per lasciare il posto alle cose come vorremmo che stessero, ma, secondo Severino, che sopra mi ha accompagnato per mano e che io ho seguito, questa é la follia, credere che possiamo mutare gli stati delle cose ci induce a credere che le cose sono da noi manipolabili e annientabili, é credere che le cose si annientano, questo il nostro tempo, questo l'errore di fondo che ci angoscia, questo il principio di un modo di vedere le cose non come divenienti dal niente all'ente per tornare niente di cui é impossibile che ció avvenga, ma come quelle che appaiono a noi e poi scompaiono ma sempre e per l'eterno, questo là in fondo al tunnel in cui ci siamo infilati con la grande tradizione di pensiero e dove al fondo compare la gioia di essere testimoni dell'eterno apparire delle cose e non per questo divenienti.
 
Dru
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