Il colera a Bagolino e Ponte Caffaro
di Giancarlo Marchesi

Fra il 1836 e il 1837 il colera causò numerosissime vittime. In un libro di Alberto Vaglia le vicissitudini, tenute finora in ombra, di quel che accadde a Bagolino

 
Il colera, una delle più tenute malattie pandemiche, in questi ultimi mesi sta piegando Haiti e continua a essere un morbo largamente diffuso in molti altri Paesi in via di sviluppo.
Se ai nostri giorni il colera sparge lutti e desolazione nelle realtà dove la scarsa disponibilità d’acqua pulita rappresenta una questione con la quale misurarsi quotidianamente, nel primo Ottocento il terribile morbo imperversava in Italia.
 
Fra il 1836 e il 1837 mise radici in tutti gli stati regionali dell’epoca: una grande paura si diffuse lungo la penisola, dal Piemonte al Lombardo-Veneto, dal Granducato di Toscana allo Stato Pontificio al Regno delle Due Sicilie.
Nel 1836 l’intero Bresciano fu colpito dal colera: il contagio cominciò a diffondersi nel mese di aprile e infierì per sette lunghi mesi, fino all’autunno.
 
La malattia provocò un elevato numero di vittime: stando a dati raccolti da Willelmo Menis, medico provinciale dell’epoca, furono colpiti dal morbo oltre 20mila individui, mentre i decessi sfiorarono le 10mila unità. Se, come evidenziano queste statistiche, il territorio provinciale pagò un ingente tributo, Brescia venne totalmente sconvolta dal colera, tanto da risultare una delle città del Lombardo-Veneto maggiormente falcidiata dall’epidemia, con oltre 1.600 morti.
 
Non vi è dubbio che, in periodi diversi, molto è stato scritto intorno all’epidemia di colera che nel 1836 investì la città di Brescia, tuttavia, occorre osservare che la storiografia locale ha lasciato più in ombra le vicende che interessarono il vasto e articolato territorio provinciale.
Ora Alberto Vaglia, medico specializzato in malattie infettive, figlio del compianto storico e letterato Ugo, colma questa lacuna con una monografia dal titolo: «L’epidemia di colera del 1836 a Bagolino e Ponte Caffaro» (Edizioni del Comune di Bagolino, collana «Zangladello»), soffermandosi sui fatti che videro protagoniste queste realtà della montagna valsabbina.
 
Avvalendosi della preziosa documentazione conservata nel ricco archivio storico della comunità bagolinese, Vaglia focalizza la sua attenzione su questi due borghi valsabbini delineando, oltre allo svolgimento del morbo, l’efficienza della rete di assistenza predisposta dalla municipale bagolinese, pronta ad adottare scrupolose precauzioni allo scopo di arginare il contagio, limitando così il numero delle vittime.
 
Ma non solo: l’autore mette efficacemente in luce edificanti episodi caratterizzati dalla profonda umanità dei protagonisti, come quelli che, ad esempio, videro in prima linea Nicola Buccio, giovane curato della Chiesa di S. Giacomo posta in località Pian d’Oneda.
Il religioso - evidenzia l’autore - si prodigò con grande dedizione e coraggio ad assistere spiritualmente i contagiati.
 
Di più.
Consapevole dell’ estrema povertà dei suoi parrocchiani, don Buccio non esitò ad attingere ai risparmi personali per garantire loro tutto il necessario nel momento dell’emergenza, arrivando persino a sostenere le spese delle esequie dei colerosi.
Inoltre  il giovane religioso si adoperò per convincere le autorità comunali ad avviare la costruzione di un cimitero anche a Ponte Caffaro, per evitare che le vittime del colera fossero trasportate a quello di Bagolino percorrendo, con grave pericolo, la via detta della «Bagozzina».
 
Il volume di Vaglia è completato da un’interessante postfazione di Francesco Castelli, ordinario di Malattie infettive all’Università di Brescia, dedicata al colera oggi, e da una ricca appendice documentaria che propone la trascrizione di oltre cento tra missive e tavole sinottiche dell’Archivio storico del Comune di Bagolino.
 
 
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