Il prezioso tubero è coltivato in Valle Sabbia
Nel Comune di Vobarno, nel Comune di Pertica Alta e in quello di Roè Volciano esistono impianti sperimentali per la coltivazione del Tuber melasporum, il tartufo nero, grazie alla presenza di terreni porosi.

Eccoci arrivati - scriveva Dumas - al sacrum sacrorum dei gastronomi, a quel nome che i buongustai di tutte le epoche non hanno mai pronunciato senza portare la mano al cappello al tuber cibarium, al lycoperdon gulosorum, al tartufo.

A sentir lui «fare la storia dei tartufi sarebbe come intraprendere quella della civilizzazione del mondo, alla quale, per muti che siano, essi hanno preso parte più di quanto lo abbiano fatto le leggi di Minosse, o le tavole di Solone, a tutte le grandi epoche delle nazioni, a tutti i grandi bagliori che gettarono gli imperi; affluivano a Roma, dalla Grecia e dalla Libia; i Barbari passando su di essi li calpestarono e li fecero scomparire, e da Augustolo fino a Luigi XV essi svaniscono per riapparire soltanto nel XVIII secolo».
Il «Mozart dei funghi»

Per Plinio il tartufo era un callo della terra. Per Brillat-Savarin il diamante della cucina. Per Rossini, il «Mozart dei funghi». Secondo gli antichi saggi, il loro abuso provocava malinconia. Rasputin lo prescriveva allo zar Nicola e allo zarevic Aleksej per curarne l'emofilia. Napoleone e il marchese de Sade ricorrevano al tartufo nelle loro tenzoni amorose: entrambi lo consideravano un afrodisiaco eccezionale. Il suo intenso profumo, ricorda alla scrittrice Isabel Allende «quell’odorino di aglio e sudore che ristagna sui vagoni della metropolitana di New York». Al naso di Pat Conroy, invece, il tartufo fa uno strano effetto: «Ha un’aroma caratteristico come quello della marijuana; ti dà l’idea dell’odore che un albero deve sentire di se stesso».

Se ci fate caso, quando in Italia si parla di tartufi, sembra che solo Alba, Norcia e Spoleto ne detengano il monopolio. C’è invece una tradizione tartufigena nelle Valli bresciane che merita di essere conosciuta.

Mi hanno raccontato che, persino a Brescia città, capitava di sorprendere cercatori di tartufi coi loro cani lungo i filari di tigli ai bordi delle strade. Nel Comune di Vobarno, nel Comune di Pertica Alta e in quello di Roè Volciano esistono impianti sperimentali per la coltivazione del Tuber melasporum, il tartufo nero, grazie alla presenza di terreni porosi, ben fessurati, asciutti e ricchi di carbonati.

Tra i tartufi, invece, che crescono nella Valle spontaneamente, il più diffuso è il Tuber aestivum uncinatum dal suo profumo caratteristico, inconfondibile, mai fungino. Si trova soprattutto in simbiosi coi noccioli e spesso le sue dimensioni eguagliano quelle di un agrume, col peridio (la corteccia esterna) di un nero corvino e la gleba (la carnosa massa interna) di color avellana.

Il periodo migliore per cercarli è da agosto a dicembre. Dalle ricerche effettuate si calcola che, in annate di andamento climatico normale, la provincia di Brescia produca le seguenti quantità di tartufi: Tuber aestivum 10 quintali; Tuber melanosporum 2,5 quintali; Tuber uncinatum 4 quintali; Tuber mesentericum 3 quintali. In provincia quindici specie

E’ inoltre dimostrato che delle ventiquattro specie di Tuber che crescono in Italia, quindici sono state accertate nella provincia di Brescia, comprese le nove di cui è permessa la raccolta e il commercio. Per alcune di esse è stata verificata la sola presenza sporadica, per altre, le stazioni di crescita rilevate sono risultate così numerose, da dare origine a delle vere e proprie produzioni - in modo particolare tuber aestivum, tuber aestivum forma uncinatum e tuber mesentericum.

La vera novità invece di questi ultimi anni è stata la scoperta del tartufo bianco in Val Sabbia (in alcune stazioni di comuni del centro bassa valle) e delle condizioni ideali per il suo sviluppo e per la sua fruttificazione.

Il Grattarolo nella sua «Historia della Riviera di Salò» decantava già nel 1600 l’entroterra gardesano come «dimora di tartufi e funghi di molte sorti, delicatissimi» e il Solitro nel suo «Benaco» magnificava i bianchi di Manerba. Guido Piovene nel suo «Viaggio in Italia» definiva il tartufo «essere misterioso, che rende misteriosi anche gli uomini nell’andarne a caccia». Perché i cacciatori di tartufi - i trifulau - quando scoprono una riserva, continuano il loro giro simulando indifferenza per non attrarre l’attenzione degli altri. Dopo pranzo vanno al caffè, e alla solita ora, fingono di tornare a casa per coricarsi ; invece escono in segreto con una lanterna cieca e un cane silenzioso.

Due mesi fa ho provato a star dietro a un vecchio trifulau di Pertica Alta che per una settimana ha sopportato la mia curiosità. Ha ragione Cesare Marchi quando scrive che «a guardarli bene tra loro, i trifulau, si assomigliano, perché ciascuno di loro assomiglia stranamente al tartufo: profilo sbilenco, pelle ruvida, color della terra». Il mio veniva la mattina a prendermi col suo cane, facevamo colazione in piedi al bar della pensione, io un caffè, lui una grappa, e poi ci inoltravamo nell’aria cruda di nebbia dei boschi.

Rimbrotti al cane e mezze frasi. Il patto era che mi raccontasse ogni cosa, che mi svelasse tutto quello che sapeva sui tartufi, ma sul registratore finirono solo silenzi, mezze frasi e qualche rimbrotto al cane. Era come il Bartleby di Melville che a ogni cosa che gli chiedevano rispondeva sempre «preferirei di no». Così il mio trifulau; se gli chiedevo il permesso di scattargli una foto o se lo sorprendevo con una domanda che potesse in qualche modo insidiare il suo mondo segreto, scuoteva il capo, mai in modo brusco, magari accompagnando il dondolio del capo con un sorriso, dopodiché riprendeva a camminare come se io mi fossi evaporato nella nebbia.

In una settimana, respirai l’aria sana dei boschi, feci amicizia col suo bastardo, lo vidi raccogliere solo tre o quattro tartufi moscati, poco più grossi delle feci di un coniglio, che non riuscì nemmeno a vendere perché il tuber brumale o lo dai via subito o perde il suo profumo.

Per mia fortuna il titolare della pensione conosceva un vecchio farmacista, naturalista per diletto, che diede un senso ai miei ultimi giorni in Val Sabbia. Da lui appresi decine di aneddoti divertenti, mi portò a vedere come si addestrava l’olfatto dei cani da tartufo - cosa peraltro dispendiosissima perché nei primi giorni ai cani si buttano dei piccoli tartufi neri coi quali giocano e poi li mangiano. In seguito i tartufi vengono nascosti - in genere sotto a una pietra o a un mattone - perché i cani inizino a raspare, e quando i cani superano la prova i tartufi si occultano negli anfratti, prima aperti, poi chiusi con la terra e il fogliame.

A volte il farmacista li aiutava seppellendo nella buca anche un pezzo di formaggio - robiole mature e pungenti o gorgonzola .
Inoltre mi erudì sulle differenze tra il cane e il maiale addestrati a trifule. «I maiali - mi sibilò in un orecchio - sono come le bombe intelligenti; all'inizio non c'è cane che tenga, ma appena arrivano a tiro del tartufo, un disastro. Conosco un paio di trifulau che per levargli il tartufo di bocca, a momenti ci rimettevano la mano».
Cosa gratteremo sulla fonduta?

Nei boschi mi indicò le essenze arboree con cui i tartufi sono soliti associarsi, e alla vista delle vigne, lanciò colorite imprecazioni. Le vigne gli facevano lo stesso effetto che Salman Rushdie fa agli ayatollah iraniani. «Per metter su queste viti hanno fatto strage di piante. Se sapesse i tigli, i pioppi, i salici e le querce che hanno abbattuto. Così non va. Non va soprattutto per i tartufi. Perché così il nostro bicchiere sarà sempre pieno ma sulla fonduta cosa ci gratteremo? I tappi del vino?».

Finalmente potevo scrivere qualcosa sui miei taccuini, anche se, una volta a casa, realizzai che comprando un manuale della Hoepli avrei risparmiato in tempo e in denaro. Quanto al mio omertoso trifulau venni a sapere che mentre di giorno mi portava per boschi a caccia di cacatine di coniglio, la sera levava i tappi dalle narici del suo bastardo e la raccolta era tale che i tartufi gli debordavano dalle tasche.
Sul pullman che mi riportava a Gavardo mi parve di udire le sue risate mentre raccontava di me ai suoi amici al bar…

Lorenzo Cairoli
Da bresciaoggi
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