28 Agosto 2009, 14.28
Casto Valsabbia
Accadde

Gli amici di Vladimir Vladimirovic Putinnon...

Giorgio Sbaraini, giornalista recentemente scomparso, attento osservatore di cose bresciane, nel 2005 si eraoccupato del passaggio di controllo della Lucchini a nuovi imprenditori russi.

Nel febbraio del 2005, in occasione del passaggio di controllo della società Lucchini spa, fondata e guidata per lunghi decenni con polso fermo dal valsabbino Luigi Lucchini, Giorgio Sbaraini, attento osservatore di cose bresciane, scrisse un articolo di commento. Vallesabbianews lo riprende per ricordare la figura del giornalista recentemente scomparso.
 

Gli amici di Vladimir Vladimirovic Putinnon sono venuti qui, all’ombra del Cidneo, non a comprare da Gino Corioni il Brescia, come lui forse sperava, ma per entrare con il colosso Severstal nel gruppo Lucchini, come soci di maggioranza. Alla famiglia del capitano d’industria e di finanza di Casto, ‘l siòr Gino,figlio del Bepi de la füsinarota, resta una quota di poco superiore al 28,5 per cento.
 
Nella suddivisione delle cariche, al taciturno e riservato Beppe andrà la presidenza del gruppo, mentre Aleksey Mordashov diventa l’amministratore delegato.
Secondo gli accordi, volendo, tra due anni i Lucchini potranno ritirarsi, vendendo la propria parte. E non sarà sicuramente un bel giorno per il siòr Gino, il Cavaliere, il creatore di imperi industriali, il gigante dell’economia bresciana, e non solo - che s’era spesso vantato di investire all’occorrenza in scioperi ma per contro di non chiudere mai le aziende - questo passare la mano, per lasciare la sua creatura a estranei.
 
Luigi Lucchini, ‘l siòr Gino, come gli piace essere chiamato da chi ha con lui qualche frequentazione e un filo di familiarità, ha fatto tutta la vita ciò che ha concepito come una vocazione, l’imprenditore di grandi capacità, che ha trattato alla pari con i potenti della politica e del denaro, ricoprendo cariche di grande impegno e prestigio. Lo ha fatto lasciando nel cassetto quel diploma di maestro elementare iscritto al Magistero della Cattolica e ai corsi di letteratura e di filologia di Heideberg, nei drammatici sconquassi dell’ultimo conflitto, dell’occupazione tedesca e della guerra civile.
Riprese gli studi dopo il ’45, tornò a Heidelberg, insieme a Emanuele Severino, ma ci restò poco, dovendo tornare a casa per la morte improvvisa del padre, a interessarsi della füsina a mezza strada tra Casto e il fondovalle, con la grande ruota fatta girare dalle acque della Nozza e della Vrenda, che un poco più a valle confluiscono nel Chiese, e con il maglio a battere zappe e badili, podetti, fóls e ranze, partendo da questi prodotti per il primario per operare nel settore siderurgico, che sarebbe diventato trainante nell’Italia da ricostruire e da rimettere in piedi.
 
La laurea honoris causa in economia gliela conferirà l’Università di Brescia, la prima nei suoi sedici anni di vita «per la lunga e insigne carriera da imprenditore e per il valore esemplare della sua persona e della sua esperienza industriale», e lui la riceverà di buon grado, come qualcosa di atteso a lungo, diciamo pure di dovuto, a colmare un tassello del mosaico esistenziale rimasto vuoto.

Certo, di strada ne ha fatta il figlio del Bepi che, quand’era giovane e studiava («era il sogno di mia madre, che mi voleva dottore ed era convinta che lo studio affrancasse da una vita disingrata»), nel tempo libero scendeva a dare una mano al padre: «Noi abitavamo sopra la fucina: ho sempre sentito il maglio, i rumori della forgiatura mi hanno accompagnato a lungo. E’ stata una fortuna - riconoscerà - l’essere nato e venuto su in un contesto familiare che per tradizione lavorava il ferro, sembra quasi una casualità e invece non lo è stata. Da lì sono partito a guerra finita, tagliando con la fiamma ossidrica i residuati bellici per avere ferro da fucinare e da lavorare, cavandoci dei prodotti finiti».
Lui è uno di quegli industriali calati dalle valli in città a occupare gli spazi che il tramonto delle grandi famiglie bresciane lasciava sguarniti. Sarà Bruno «Ciro» Boni, figlio di un sarto particolare, specializzato in confezioni talari con bottega in Cantarane, uno che s’era fatto largo con popolana aggressività tra i manierati eredi della borghesia cattolica, sarà lui a teorizzare i diritti e i doveri della nuova ondata imprenditoriale, offrendo loro pure uno strumento di facile popolarità con la società di calcio, quando Carlino Beretta la lascerà e «Ciro» metterà in pista un consiglio pletorico che la domenica farà passerella allo stadio.
‘L siòr Gino passa dalla fucina paterna, ingrandita e ammodernata, alla Bosio di Sarezzo ed è un crescendo, un camminare con gli stivali delle sette leghe: «c’è una colombina che una volta ogni lustro passa sulla testa di ognuno - teorizza in un’intervista di Eugenio Scalfari - l’importante è di essere pronti ad afferrarla».
E lui è bravo come nessuno a farlo, metti un falcone addestrato che non molla la preda, e non dite al suo fraterno amico Umberto Gnutti che si tratta di fortuna: «la fortüna l’è qué», ribatte toccandosi la fronte.
‘L siòr Gino è uno che cresce, compra, diversifica, entra nei salotti buoni della finanza, diventa una potenza. Ed è un capofila anche nelle lotte con il sindacato, duro e implacabile, spietato e ringhioso, un falco proprio, intelligente e vendicativo. Un giorno viene a intervistarlo Nantes Salvalaggio, veneziano di origini e di cultura, che sul «Giorno» scrive: «Ho qui davan ti a me il cavalier Lucchini, è un maestro elementare, figlio di un fabbro ma non sogna la marcia su Roma».
E invece a Roma ci va, presidente di Confindustria, spinto da un’impetuosa piena di consensi per la fama di duro che si è conquistato. Ma proprio nell’Urbe, nel palazzone piacentiniano dell’Eur, lui dimostra invece di essere avveduto e pragmatico, stupendo in negativo chi l’aveva votato perché facesse strame del sindacato, non però chi lo conosceva bene e lo sapeva capace di operare una netta distinzione dei ruoli, tra il Lucchini industriale privato - nemico dichiarato e arcigno della controparte, protagonista di vertenze epiche, condotte senza esclusione di colpi - e il Lucchini investito di un ruolo politico e di compiti di rappresentatività istituzionale.
Tornerà da Roma e riprenderà come non fossero passati quegli otto anni, al lavoro presto nel palazzone degli uffici e, di fronte, il largo spiazzo rettangolare a lungo usato come un magazzino a cielo aperto, in cui stanziavano il rottame e i fasci di tondo.
Su Lucchini è nata una letteratura dai contorni agiografici e lui, che ha le sue brave civetterie, ci ha pure marciato. Hanno detto che è nato poverissimo, ma non era proprio così, il papà con la fucina, la mamma che aveva l’osteria: e poi, via, a quei tempi i figli dei poveri non li mandavano mica a studiare a Brescia e in Germania. Lui, che un filo di gigionismo se lo porta sottopelle, questa povertà se l’è rigirata per bene: «Avevo 26 anni, un diploma e neanche il becco di un quattrino - racconta infatti - quando andai da Rota a comprare una stufa, poi ci ritornai per protestare perché non funzionava bene, finì che passai e ripassai un’infinità di volte, ma la stufa non c’entrava». C’entrava invece la signorina Emilia, che lavorava nel negozio del padre e che gli sarà fedele e affettuosa compagna («l’unica ad avere avuto voce in capitolo negli affari del marito» , soggiunge qualcuno) per tutta la vita, una donna schiva, dolce ma non priva di energia, una vera risidura, tanto per capirci.
La famiglia Lucchini, cioè ‘l siòr Gino, Beppe e le due figlie, si godrà il molto che ha accumulato. Un pomeriggio che su una bella sfilata di computer controllava la produzione delle sue aziende e l’andamento della Borsa: «se anche lo volessi - si lasciò scappare senza spocchia né ostentazione - non riuscirei a spendere gli interessi di quel che ho guadagnato oggi».
Ma oggi il gruppo che reca il suo nome si prepara ad avere un altro padrone, dopo una crisi iniziata nel luglio di due anni fa, con la restituzione di due prestiti obbligazionari per 400 milioni. Altri impegni dovranno essere onorati nei prossimi mesi. Tra due anni, è probabile che tutto passi ai russi. I Lucchini, jam dixi, si potranno ritirare. Ma già oggi, credo, per il Cavaliere è un giorno di scoramento. Una sconfitta.
 
Giorgio Sbaraini



 



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