Naires Berardi è affidata ai servizi sociali

«Si fermi, per favore: sto male». Glielo ha chiesto tre volte. E lui, il tassista che martedì la stava portando a casa dal carcere di Opera, tre volte ha accostato.

Troppa emozione per Naires. Troppa libertà tutta di colpo e senza il filtro delle sbarre. Troppo anche il senso di colpa che la tormenta, scolpito nell’anima, dal 17 settembre del 2001.

Quella sera la sua mano impugnò un coltello da cucina e lo affondò nel petto e nella schiena del padre. Andrea Berardi, il papà con il quale aveva sino a poco prima un rapporto affettuoso, morì sul colpo.

A cinque anni abbondanti da quella maledetta cena il Tribunale di sorveglianza di Milano ha aperto le porte del carcere alla venticinquenne. L’ha rimessa in cammino.

Dopo un’assoluzione in primo grado del Tribunale di Brescia, una condanna a nove anni e 4 mesi dell’Appello confermata in Cassazione, ha riconosciuto quello che altri giudici avevano negato:

«Naires, con la sua condotta, ha inteso salvare la propria madre e se stessa dalle continue vessazioni e violenze del padre, ormai divenute per lei intollerabili e di certa e prossima realizzazione».

Il padre, in preda ad attacchi di gelosia, aveva già impugnato e puntato il suo fucile da caccia contro la moglie e madre di Naires.

E quella maledetta sera, poco prima di mettersi a tavola e che il sangue lacerasse la famiglia, le aveva detto che avrebbe «fatto una strage che tutti avrebbero ricordato».

Secondo i periti della Corte, che la condannò concedendole le attenuati generiche nella massima estensione, in quella casa si era creato un clima «caratterizzato da forte terrore».

«La prolungata minaccia alla madre era sicuramente tale - scrissero gli esperti - da provocare una frustrazione che può divenire intollerabile e lo scatenarsi di un’aggressività che può apparire cieca, ma che ha motivazioni profonde e psicologicamente comprensibili».

Insieme alle 1500 firme raccolte a Vallio e dintorni dall’avvocato Marino Colosio e dalle sue collaboratrici, le dottoresse Alessandra Uberti e Silvia Pannocchia, e allegate alla richiesta di grazia formulata alla Presidenza della Repubblica nel novembre del 2004, queste argomentazioni hanno convinto i giudici di Sorveglianza a riavviare il percorso che si era interrotto nel dicembre del 2005: dopo che a Naires venne concessa e immediatamente revocata la possibilità di uscire da Verziano per andare a lavorare dalle 8 alle 17.

Da martedì sino al 21 gennaio del 2009, giorno in cui avrà scontato la sua pena, la giovane sarà affidata ai servizi sociali. Libera.

«Finalmente - dice l’avvocato Marino Colosio - le è stato restituito un minimo di giustizia. Naires ha pagato quotidianamente per quello che ha fatto: ha ucciso il padre ed è morta nella propria coscienza, nel proprio cuore.

Ora per lei inizia una nuova vita, in attesa della grazia. Obiettivo per il quale ci batteremo fino al giorno della scadenza della pena. È giovane e merita la riabilitazione».

Al 21 gennaio del 2009 mancano due anni esatti. Due anni che, dalle 19 di martedì, hanno un altro colore. Quello della gioia di riabbracciare la madre e di dormire nel lettone con lei, nella stanza del padre.

Due anni che hanno il sapore delle lacrime che rigano il volto del fratello Ermes e il tepore dell’abbraccio dello zio paterno. Ma anche il profumo dei boschi di casa e la consistenza delle parole e dei fatti delle persone che l’hanno voluta di nuovo tra loro. Perdonandole un gesto dal peso sovraumano, dal quale per lei sarà difficile resuscitare.

P. Prati
Da Gionale di Brescia

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