02 Agosto 2008, 00.00
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Università

Quanto lavorano i professori universitari?

Il mondo universitario è una galassia al limite della controllabilità. La sciagurata riforma del 3+2 di Luigi Berlinguer ha contribuito alla decadenza qualitativa dell’intero sistema

L’articolo del collega Angelo Santagostino prende di mira la mai risolta questione di quanto lavora un professore universitario che ha fatto versare fiumi d’inchiostro, ma, sfortunatamente, poco utili per capire cosa realmente accade nelle nostre università. L’articolo non fa eccezione e forse spero non risultino inutili alcune riflessioni aggiuntive.

Il mondo universitario è una galassia al limite della controllabilità. La sciagurata riforma del 3+2 di Luigi Berlinguer ha contribuito alla decadenza qualitativa dell’intero sistema, non è il caso di ripercorrerne le vicende. Ciò che mi preme sottolineare è l’aspetto nodale: quanto lavorano i professori universitari e perché così poco, come sembra assodato.

Il lavoro di un docente si compone di tre parti: attività di docenza, attività negli organi dell’università, attività di ricerca. I tre segmenti variano, e di molto, a seconda dei settori scientifico-disciplinari, cioè delle materie insegnate. In quelle ad alto contenuto scientifico e sperimentale, può accadere che la docenza confligga negativamente con la ricerca applicata; in altre i tempi della ricerca differiscono proprio per caratteristiche stesse della ricerca: un conto, per fare un esempio, lavorare su materiale presente in internet, un conto è frequentare archivi e biblioteca sparsi per il mondo. Il termine ricerca, infatti, evoca esclusivamente quelle avanzate che producono brevetti, mentre esiste anche quella umanistica e delle scienze sociali che producono solo idee ma non brevetti e che sono difficilmente premiate da sponsorizzazioni efficaci.

Ma è bene rimanere sulla docenza effettiva. Il collega ha ragione: benché non vi sia una norma chiara, attualmente sono previsti dei limiti comunemente accettati: 60 ore annue per i ricercatori, 120 per i professori. Se si va oltre scatta l’incentivazione (120 euro/ora lordi). Detto così, i numeri fanno gridare allo scandalo. Purtroppo questi numeri sono determinati dalle materie e dalla struttura dei corsi. Poiché tanto il prof. Santagostino che il sottoscritto insegnano in facoltà simili, Economia, ma in città diverse e discipline diverse, risulta più facile spiegare il meccanismo dell’attribuzione delle ore di insegnamento che si ripropone con molte varianti, ma in maniera sostanzialmente simile, per le altre facoltà.

Le discipline si dividono in due gruppi: fondamentali e professionalizzanti. Alle prime sono dedicati corsi che raggiungono le 80 ore, alle seconde ci si ferma a 30-36. Ovviamente un settore scientifico disciplinare può generare più o meno corsi e quindi produrre più o meno ore di didattica. La quantità totale dipende dall’importanza della disciplina e dalla «forza accademica» della disciplina stessa. Per rimanere nel caso concreto, la mia disciplina, storia economica, attualmente è presente con un insegnamento fondamentale nel triennio e con un insegnamento nel biennio specialistico, sicché il mio monte ore annue si ferma a 110. Non ne posso fare di più perché non esiste la possibilità di farle. Quando il collega afferma che si possono fare 180-200 ore si riferisce a particolari strutture curriculari che possono rappresentare l’eccezione ma non la norma, oltre al fatto che l’Università non presenta turni anche notturni, come una acciaieria qualsiasi.

Certo i corsi, vista l’alta affluenza degli iscritti, si possono triplicare o quadruplicare, ma mancano i contenitori fisici, cioè le aule e non si può generalizzare. A questa possibilità ostacola la nuova ed ennesima riforma voluta dal ministro Mussi: il triennio non deve avere più di 20 discipline e il biennio specialistico si deve fermare a 12. Questa legge ha scatenato gli appetiti più perversi. Sempre per fare un esempio, i miei colleghi stanno pensando che storia economica non sia poi così importante per un futuro dirigente d’azienda e, quindi, pare logico declassarla a materia non fondamentale ridimensionandone le ore di didattica: da 80 a 48 seconda una nuova caratura dei crediti attribuiti alle diverse discipline (non più 80-30/36, ma 72/48) e, ovviamente, non necessaria nel biennio specialistico (nel mio caso era Storia della moneta e della banca). Se nel dibattito che avverrà, passerà, «democraticamente», questa linea, mi troverò ad avere un insegnamento di 48 ore senza la possibilità di farne di più.

La situazione è riproducibile per molte facoltà, con numerose varianti, certo, ma la sostanza non cambia. Quindi, mi pare che quando si parla e si scrive, varrebbe la pena far riferimento a situazioni concrete che sempre sfuggono nella maggior parte degli articoli.

Infine l’età pensionabile. La limitazione progressiva degli anni fuori ruoli, articolata in modo contradditorio, ha sicuramente creato malumore e malcontento. Alla fine però, bisogna dire le cose come stanno e, anche in questo caso, con qualche opportuno distinguo.

Personalmente credo che 70 anni possano bastare, altrimenti lo spazio per i giovani si chiude sempre di più. In alcune discipline o in settori di ricerca molto specialistici, l’anzianità è un valore aggiunto che va mantenuto con altre possibili forme che pure esistono. In molti altri settori, l’appartenenza universitaria serve solo a mantenere il raddoppio della parcella professionale o a lucrare qualche annualità in più sulla buonuscita finale.
I rimedi possibili? Attualmente non ne vedo. Anzi, bisogna prepararsi proprio a scenari che vanno in direzione diametralmente opposti a quelli auspicati. Volendo fare l’ultimo esempio, se con le vecchie lauree quadriennali ci si laureava in Economia e commercio in 26-28 esami, ora bisognerà affrontarne 32, di contenuto non sempre all’altezza della situazione, e, possibilmente, un master, annuale o biennale, per un «aiutino». Ai miei colleghi che avevano approvato un master in «Intelligenza manageriale» ho chiesto: «Ma non si può attivare un master in "Intelligenza tout-court"?».

MAURIZIO PEGRARI
Professore di Storia
economica e di Storia
della Moneta
e della Banca
Università di Verona

Da Giornale di Brescia


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