23 Aprile 2020, 18.03
Val del Chiese
Valle del Chiese

Grazie panettieri e panettiere

di Gianpaolo Capelli

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano” dice il Padre Nostro. In questi tempi di coronavirus e di ristrettezze economiche, credo che il nostro buon pane quotidiano sia stato rivalutato


Negli ultimi anni, il consumo del pane è andato calando in modo significativo, sostituto da altri prodotti più leggeri vuoi per la dieta, ma anche da tanti prodotti più golosi per i nostri ragazzi e non certo più sani.
Forse non siamo abituati a leggere il “bugiardino” che è dietro i prodotti di merendine e dolcetti vari.
Io che provengo da una famiglia di panettieri, con mio nonno Giovanni che inizia la sua attività prima del 1900, conosco il valore del pane e il valore che ha avuto nel secolo scorso e quello che ha avuto nei secoli per il sostentamento umano.

Ripensare, come mi raccontava mio padre Martino, ai tempi della guerra, quando data la scarsità di frumento, che veniva destinato alle truppe in guerra, si mangiava di tutto, anche il pane nero prodotto non so con quali farine e con quali ingredienti.
Pane che scarseggiava e veniva razionato con la tessera “annonaria”: una porzione a persona che veniva annotata per non permettere imbrogli.
Mio zio Zelindo, panettiere in Ponte Caffaro, per il pane fu anche minacciato di morte.

A quei tempi le panetterie erano poche, a volte distanti e il “paneter o pistur” doveva fare chilometri a piedi per andare da casa al luogo di lavoro. Mio padre abitava a Bondone e il forno era a Baitoni, tutte le notti su e giù a piedi per la mulattiera.
I miei ricordi ritornano agli anni 50, alla mia gioventù, quando il forno era stato spostato a Bondone. Fare il pane comportava anche una fatica fisica non indifferente, oltre che sobbarcarsi levatacce quotidiane, le macchine per la sua lavorazione erano un miraggio.

Si partiva con la preparazione del “levà” il lievito verso le sei la sera, che doveva riposare alcune ore. Durante la notte bisognava tirare l'impasto a forza di braccia sul bancone di legno per render l'impasto omogeneo, a volte addirittura per ore in base alla quantità dell’impasto.
I forni erano ancora come quelli ai tempi di Gesù Bambino, altro che vaporiere, programmi elettronici, a gas o elettrici, come quelli attuali: tassativamente a legna.

A mezza stanza, cioè ad una altezza comoda per infornare, veniva costruito un avvolto in mattoni refrattari, con uno sfiato per l'uscita dei fumi calcolato in maniera giusta; il calore non doveva andare su per il camino ma rimanere il più possibile nel forno.
Ogni tanto da ragazzo aiutavo mio padre nell'accensione: si partiva da un forno già tiepido, la legna da usare doveva essere mediamente fina e veniva posta sul fondo della volta del forno.
La temperatura del forno cominciava a salire ed era l'esperienza del fornaio a decidere quando bisognava infornare poiché non c'erano indicatori di temperatura: nel forno non ci doveva essere più fumo e la platea doveva essere bella calda e pulita dai residui del fuoco. La vaporiera non esisteva e per rendere il pane lucido lo si spruzzava con uno straccio e dalla bocca del forno usciva un profumo che si diffondeva lungo la strada.

Spesso gli amici erano lì ad aspettarmi:Gianpaol sinte che bu odur, vardo se te garive a fregàc qualche panèt al to pare” e in dialetto mi dicevano guarda se riesci a prendere qualche panino per noi. Erano tutti di famiglie povere, compagni di marachelle quotidiane, non potevo dire di no. Avevo sempre qualche soldino in tasca e quando andavamo a raccogliere “le boghe” (le pigne secche) ottime come accendi fuoco, sopra Bondone nella pineta, per non farmi vedere da mio padre che spendevo, mandavo qualche amico, non dal bottegaio Martino, ma dalla concorrenza alla Famiglia Cooperativa a comperare qualche etto di mortadella che mi ricordo costava 15 lire l'etto.

A Ponte Caffaro c'era un negozio di giocattoli dalla “Milani” e qualche soldino l'ho speso anche lì. Ci piaceva anche far qualche tirata da fumatori; prendevamo i “vec”, pezzi di liana secca e provavamo a fumarla, cattivissima. I miei compari di merenda più grandi di me, mi insegnarono ad andare a “gratà” a prendere di nascosto qualche pacchetto di sigarette. Mio padre se ne accorse, mi diede una spazzolata e una cresimata solenne: nella mia vita non ho più fumato e ho sempre rispettato quello che è di Cesare.

Ritornando alla vita del panettiere di una volta merita di essere raccontato quello che capitò sul Montenegro a mio zio Zelindo Capelli. Nato a Ponte Caffaro, classe 1899 è stato un alpino di incrollabile fede nei valori della patria ed è morto nel 2013 all’età di 99 anni ed era il decano dei panettieri locali.
Nel 1936 parte per l'Africa: viene richiamato in guerra nel 1940 quando nasce il figlio Gianluigi, poi arriverà Norma. La moglie Angelina come “panetera” deve sobbarcarsi da sola anche il lavoro del marito Zelindo.
 
Dei commilitoni che erano con lui sul Montenegro i più tanti erano destinati sul fronte greco. Zelindo, dopo diverse mattine che la razione di pane quotidiana era immangiabile, si mette a urlare davanti all'ufficiale di giornata “Carboner. . . chei che brusa el pa en chela maniera che!” (Carbonai… chi è che brucia il pane in quella maniera qui!).
Dà l'appellativo di carbonai ai panettieri come per dire che erano degli incompetenti e che dovevano andare a fare il carbone invece che il pane, atto di insubordinazione e offesa agli operatori dell'arte bianca.

La cosa non passa inosservata e Zelindo viene chiamato a rapporto dal comandante che non tollera insubordinazioni: o riuscirà a fare un pane mangiabile, o subito verrà spedito al fronte. Zelindo, che è nato panettiere e sa fare solo quel mestiere, non perde la possibilità di potersi fare onore e avere una licenza premio. Prende in mano la panetteria al comando dei suoi ragazzi, che erano tutto fuorché panettieri, e sistema strutturalmente il forno, scaldandolo e pulendolo come gli aveva insegnato il papà Giovanni. Via subito la legna grossa che brucia male e fa fumo che resta nel forno, rende il pane “enfumegà”, nero e puzzolente.

Il comandante gli aveva dato pieni poteri, bastava che il pane fosse mangiabile. Manda una squadra di commilitoni a raccogliere la legna fine, gettata come scarto nelle foibe limitrofe, nelle quali scoprirà poi che non era stata buttata solo la legna ma anche esseri umani. Zelindo trasforma i suoi carboner in provetti panettieri, meritandosi l'encomio del comandante e di tutti. Grazie al pane, forse Zelindo si è salvata anche la vita, è stato risparmiato dal fronte greco.

Ho raccontato un po’ la storia della mia famiglia di panettieri per mettere in risalto il sacrificio che tale mestiere comportava allora, come ora.
Perchè nessuno dei nostri giovani vuol fare il panettiere? Perchè è una vita di sacrificio, scambiare il giorno per la notte non è facile, la notte secondo loro è fatta per divertirsi.

Attualmente il lavoro è stato alleggerito dalle macchine, si è guadagnata qualche ora di sonno in più ma il pane bisogna consegnarlo se si sta bene o male, se è bello o brutto, se si guadagna tanto o poco; e spesso quello che rimane invenduto, viene svenduto o addirittura regalato. In questo tragico periodo, i panettieri dei nostri paesi, delle nostre valli e di tutta Italia si sono fatti in quattro per consegnare a domicilio il loro prodotto.

Anche loro “uomini di buona volontà” al pari di tanti altri, perchè tutti insieme possiamo uscire da questa guerra mondiale silenziosa, ma terribile. Ci si accorge ora che invece di spendere ingenti somme nella produzione delle armi e dei relativi armamenti, bisognava investire nell'ecologia, nel rispetto dell'ambiente e nella sanità.
GRAZIE A TUTTI INDISTINTAMENTE CARI AMICI PANETTIERI.
Anche voi fate parte di quegli uomini di “buona volontà” che servite il prossimo, nonostante le difficoltà con un alimento unico: IL PANE!

Chiudendo questo articolo, ecco un breve cenno sulle famiglie Capelli, che da oltre un secolo portano avanti gli insegnamenti di nonno Giovanni "sull'arte bianca”:

Nonno Giovanni, classe 1859, inizia la sua attività a Ponte Caffaro verso il 1890. A tutti i numerosi figli insegna negli anni “l’arte bianca” e anche la musica, è stato maestro di banda. Il lavoro è poco e i figli con quanto imparato dal papà devono migrare in altri paesi vicini.

MARTINO: a Bondone. Fa la spola tutte le notti a piedi fino a Baitoni per cuocere il pane, è aiutato poi dal figlio Antonio.

LUIGI a Tiarno di Sopra, collaboratori poi i figli Raimondo e Franco.

FELICE: a Cologna di Pieve di Bono dove un valido aiuto è dato dalla moglie Pini, e si trsferisce con la panetteria, poi a Daone.
Ha fatto parte anche del soccorso alpino, con tanti interventi di salvataggio. I figli Edoardo e Luciano sono stai i suoi aiutanti e successori, coadiuvati dalle mogli Enrica e Marisa.
Alla scomparsa di Edoardo, l'attività è continuata con LUCIANO: sempre sulla breccia, ha ora il valido aiuto delle figlie Luciana e Silvia.

GUERRINO: preleva negli anni 60 il forno di Baitoni di Martino, che lascierà per la sua prematura morte.

ZELINDO: il più giovane si fa le ossa con il fratello Felice a Cologna, scorrazzando con la bici per la valle a consegnare il pane.
Diverrà il decano dei panettieri della vale, scompare ne 2013 a 99 anni.
Con la moglie Angelina apre poi il forno a Ponte Caffaro; i figli Gianluigi e Norma aiutano il papà, fino a quando Gianluigi si mette in proprio.
Per anni con la sua Ape 50 la mattina fa le consegne del pane alle famiglie: i bimbi piccoli conoscono ormai il rumore dell’Ape e festosi gridano al suo arrivo “Mamma arriva Gigi con il pane” (non con le merendine).
 
La tradizione continua a Ponte Caffaro con Endris che dopo l’esperienza di Lodrone ha rilevato il negozio della zia Norma.
Penso di far cosa grata, dato che tutti in questi giorni, stanno diventando cuochi, pizzaioli e pasticceri sopraffini, di far conoscere la sua torta nostrana, antica ricetta del capostipite nonno Giovanni, semplice ma buona: preparatela!
La raccomandazione di nonno Giovanni era: “per una torta soffice, alta e fragrante ingredienti sempre naturali e se possibile freschi e nostrani”.

INGREDIENTI:
• 5 uova nostrane e un pizzico di sale, latte quanto basta per ammorbidire l'impasto, una scorza gratuggiata di limone ben lavato, una bustina e mezzo di lievito vanigliato per dolci, 250_300 grammi di burro liquefatto, 250 grammi di zucchero, 500 grammi di farina di tipo 0, un bicchierino di grappa o di maraschino.

PROCEDIMENTO:
In una terrina montare bene lo zucchero con i tuorli, finché l’impasto diventa bello cremoso e aggiungere in seguito la scorza grattugiata di un limone, il burro cremoso, un pizzico di sale e un bicchierino di grappa.
Quando l’impasto è ben amalgamato aggiungere, piano piano, 500 grammi di farina e ammorbidire l’ impasto con il latte quanto basta poi rimescolare bene.
Per ultimo aggiungere le chiare montate a neve (le chiare devono essere sbattute molto bene, vanno bene quando non si staccano dal cucchiaio).
Aggiungerle all’impasto delicatamente non girando ma amalgamando l’impasto con le chiare dal basso verso l’alto. Infine, aggiungere una bustina e mezza di lievito.
Versare l’impasto in una tortiera imburrata e spolverata di farina bianca e cuocere in forno caldo statico a 180° per 40-45 minuti: resistenze accese sopra e sotto. Mettere la tortiera nel piano più basso

IMPORTANTE:
Tutti gli ingredienti devono essere a temperatura ambiente. Ognuno dovrà conoscere bene l’uso del proprio forno.
Ai tempi di mio nonno non si usava la frumina che rende la torta ancora più soffice ma ora, se si vuole, i 500 grammi di farina possono diventare 1/3 di frumina e 2/3 di farina 0 mescolando il tutto molto bene.
Questa è la torta semplice che toglierete dal forno aprendolo e lasciando la torta al caldo per alcuni minuti. Non aprire mai il forno prima dei 30 minuti, per controllare la cottura infilare uno stecchino nell’impasto; se esce asciutto vuol dire che la torta è cotta.
Se la torta sopra è un po’ marrone, prima di spolverare o guarnire tagliare via la crosta scura. Spolverare poi con zucchero a velo.
Il nonno qualche volta la tagliava a metà e la guarniva con il cioccolato, in mancanza di quello con il budino all'amaretto.

CHIUDENDO ECCO LA MIA POESIA CHE DEDICO DI CUORE A TUTTI I PANETTIERI E PANETTIERE...
 
IL PANE … CHE BONTÀ!
Ai tempi della guerra
la fame era tanta,
il PANE sempre poco,
si mangiava anche la pagnotta nera
pur di arrivare a sera
Adesso: merendine,
pizze e focaccine!
Il PANE? … Aimè!
Dicono: è un alimento da evitare       
per non ingrassare!
Quante fatiche i nostri papà
e nonni panettieri di allora…
Impastare sulla madia a forza di braccia
quella farina del contadino
grezza, profumata e ben lievitata

Dal forno a legna usciva un profumo
che conquistava il palato e il cuore
PANE di allora… TANTO
PANE di adesso… POCO
-Ma perché vogliamo togliere
il PANE dalla tavola, adesso,
è colpa del progresso?
La dieta ci fa rinunciare al PANE
Evitiamo invece, in sostituzione, di acquistare
alimenti reclamizzati, decantati…
che ci fanno spendere i soldi…
 e devono essere EVITATI
IL PANE È UN ALIMENTO NATURALE: ACQUA, FARINA, LIEVITO E SALE !!!!
MA PERCHE’ RINUNCIARE?

 
Gianpaolo Capelli
 
.In foto:
1) Anni ‘30 Fanfara del Caffaro diretta da Giovanni Capelli classe 1859, sulla sinistra con i figli Guerrino, Martino e Felice, capostipite dei panettieri delle famiglie Capelli (foto proprietà di Paolo Capelli)
2) Anni ‘70 sulla destra in alto Capelli Felice panettiere in Daone con la moglie Pini e i famigliari (foto di Luciana Capelli)
3) Anni ‘70 Capelli Zelindo in laboratorio con la moglie Angelina e l'aiutante Walter (foto di Norma Capelli).
4) ricordo dell'alpino Zelindo e di tutti gli alpini andati avanti in questo periodo (foto di David Capelli, elaborazione grafica di Nicol Bertanzetti)






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