25 Dicembre 2019, 09.03
Prevalle Valsabbia
Il contributo

La storia di Orlando, detto «el Lözèrta»

di Paolo Catterina

La storia di Natale del "nostro" Paolo Catterina, la pubblichiamo volentieri per tutti voi, coi migliori Auguri di Buone Feste


L’altro giorno, passando sul ponte di Bassina, ho incrociato un amico anziano, di quelli che con poche parole sanno evocare curiosità inedite e straordinarie.
Stava rimirando lo stabile che guarda dirimpetto al Naviglio e che nelle cartoline d’antan sembrava un angolo bucolico; pieno di fronde fresche, un tavolinetto piazzato in mezzo alla stradina dove due avventori col quartino di vino parevano il ritratto della serenità.
Con un gran sorriso mi chiese se conoscessi la storia del suo amico Orlando. Ma come no? Chi non ne ha almeno sentito parlare?

Ecco. Era nato tutto lì, in quella casa che adesso sembrava timida e nascosta dietro le foglie di due grandi platani.
Ricordi vaghi e lontani ma… qualcosa avevo sentito anch’io, certo non con la precisione di cui me ne diede conto, partendo come in un viaggio, proprio da lì, nel mezzo della Gavardina.

Non è superfluo aggiungere
che quello stabile squadrato e un poco anonimo cela una notabile vetustà. Guarda di sbieco il ponte, oggi frequentato da orde di ciclisti, podisti e passeggiatori che ne disdegnano l’aria ammiccante tra le fronde preferendogli la vecchia stazione con la sua aria spavalda, quasi fosse una provocante donna di mezza età rifatta.

Quella casa era un tempo un casale di grandi dimensioni, una masseria appartenuta ad una famiglia di antichi possidenti.
La casa, e la sua gente, erano così solidi che non batterono ciglio nemmeno quando, per il passaggio della moderna ferrovia, venne tagliata di netto come se fosse un pezzo di burro. Il treno vi si incuneava di mezzo avendola tranciata come d’un colpo di mannaia.

Dagli inizi del secolo scorso vi si aprì un’osteria. Di quelle osterie grandiose, quelle che davano il nome ai crocicchi, la cui vicinanza alla stazione chiamava gente ad ogni ora per il calice, per il marsalino, e poi ancora per i pranzi delle cerimonie.
Breve, quell’osteria, appartenuta alla famiglia Bresciani di cui un anziano si era fregiato il soprannome di “Supì” e che orgogliosamente lo trasmetteva come un’eredità inalienabile, divenne l’osteria de le Supìne e il ponte stesso acquistò nuovo slancio come èl pònt de le Supìne con la sua maestosa Osteria a chiamar gente e chiasso.

Già, perché, come ogni osteria che si rispetti, erano le ostére che vi regnavano a darvi lustro benché la gestione famigliare coinvolgesse tutti i componenti. Qui, ad ogni ora del giorno, si ritrovavano gli avventori che partivano o arrivavano alla stazione e alla sera vi era il ritrovo di quelli che godevano le meraviglie delle serate all’osteria.
Ma tornando a parlare dell’Orlando, è da sapere che costui aveva, all’epoca del fatto che lo rese, a suo modo, assai noto, tra i quindici e i sedici anni.

Era figlio di uno tra i più ricchi del paese, piuttosto avaro e dal carattere arcigno. Un uomo riservato e potente che, diceva qualcuno, prestava soldi “a strozzo” e non aveva misericordia a mettere la gente in miseria.
Il rampollo Orlando era stato mandato a studiare a Brescia. Per lui c’era in vista una carriera importante, certamente da professionista. Meglio Notaio o Avvocato, ma avrebbe soddisfatto i voleri del padre anche un futuro da medico o veterinario. Chissà. Di certo era, in quel periodo, tra i pochissimi che potevano permettersi gli studi in città.
E invece lui, l’Orlando, aveva la sua bella notorietà al “Regio Liceo Annibale Calini” per essere un “cànchero” sempre sul filo dell’espulsione e con quelle bocciature che lo rendevano “veterano” agli occhi ammirati di molti studenti e a quelli meno benevolenti dei professori.
Ma, alla vita di città, Orlando preferiva i divertimenti “paesani” dove passava per scapestrato e capo-bastone tra i giovanotti peggio in arnese del paese.
A scuola non di rado si portava nelle tasche e nella cartella rane e serpenti che riusciva ad estrarre ancora sul tram terrorizzando donne e ragazze.

Arrivando anche, tuttavia, a guadagnarsi, una volta, anche un sonoro ceffone.
Fu quella volta che trovò tra i viaggiatori un omone il quale non si impaurì davanti al “bés bastuner” estratto tra un quaderno e un libraccio.
Avvicinatosi alle grida di due ragazzotte terrorizzate gli rifilò una sventola che lo mandò lungo disteso.
Non era tipo, comunque, da abbattersi, si era rialzato ridacchiando e recuperando la sua fauna.

Sempre seduto negli ultimi banchi della grandi aula si era fatto beccare diverse volte anche a fumare le foglie secche di noce oltre che ad allevare un piccolo porcellino d’India dentro all’incavo del banco, nutrendolo con le rane e i serpentelli che si portava dalla campagna del paese.
Un personaggio, a suo modo, geniale e sempre in cerca di… emozioni.

Entrato dunque nell’età in cui la ricerca di nuove avventure si rivolge ad emulare gli adulti, forse anche un po’ stanco di fumar foglie di noce e di far affari con animaletti “da banco”, si risolse ad organizzare una nuova impresa.
Così, una sera, berretto calato fin sugli occhi, il cuore che batteva forte sotto la camicia, Orlando entrò al Cafè del Pont de le Supìne, dove si servivano vini e liquori e si giocava al biliardo.

Il portone alto e un accenno di corridoio… poi era un tripudio di luci, un grande lampadario che rubava la vista al grande bancone. Alle pareti vi erano due grandi quadri di bella fattura, una scena bucolica tra colline e prati punteggiati di pulzelle e pastorelli in punto di amoreggiare; come contraltare, una cruenta battaglia con cavalli imbizzarriti, lance, armature e il fuoco dell’agone.
Dietro il bancone troneggiava lei, Giulièta, l’ostéra. Solare e formosa ma compunta nell’esercizio di quel suo potere sul luogo e sulle persone che vi entravano.

“On calice de chèl de la ciaèta”
. Esordì un poco titubante.
“On calice s-cèt?” Interrogò inclita l’ostéra, soggiungendo ancora perplessa.. “de chèl de la ciaèta?
“Sé sé” rispose ostentando sicurezza il giovane.

Il tutto si svolgeva nel normale turbinio serale, la Giulièta tolse il bottiglione di vino di qualità da sotto il banco, fece saltare il tappo di sughero e ne versò, con gesto svelto, in un calice prendendo poi, con la punta di un coltello la fettina di arancio che accostò al tondo del bicchiere.

Era quello il “vino prelibato”, appannaggio di chi voleva distinguersi e che nulla aveva a che vedere col “marèl” o col “vì sforsàt”, roba da tutti i giorni.

Passata l’emozione del primo calice
, l’Orlando, ne trasse un benessere assai forte nel sentirsi adulto tra gli adulti. Quel vinello pregiato scendeva con facilità e lo faceva sentire quel grand’uomo che era convinto di essere. Il colore trasparente e leggiadro del vinello d’élite si univa all’aroma piacevole e alla gradazione importante. L’ostéra non batteva ciglio e lui… svuotava calici senza requie.
Orlando era proprio in forma, quella sera, si sentiva un gran bene e… con quella bella sensazione di calore che gli avevano messo i primi calici, ne bevve 8, uno dietro l’altro.
Poi si diresse verso lo stanzone attiguo per andare “a fà la partìda a biliàrt”.

Già, sin dalla fine degli anni ’20, dopo la Grande Guerra, appena ripreso un po’ di slancio negli affari, al Caffè del Ponte avevano installato uno splendido biliardo. Era imponente e solido con quattro belle gambe decorate con altrettante teste di leone.
Lo avevano fatto arrivare direttamente da Milano, dalla famosa e gloriosa ditta dei fratelli Hermelin, costruttori di biliardi sin dal 1825. Vi si giocava, senza che tuttavia in paese vi fossero dei veri fuoriclasse, soprattutto la “goriziana” e lo si faceva per puro passatempo.
Le buche si aprivano con robuste portelle d’ottone luccicante che emettevano un frastuono singolare ogni volta che la palla finiva nella buca scuotendo l’anta. Le biglie erano in avorio mentre il tappeto riportava, a dire la verità un bel numero di chiazze scure ed era maculato di rattoppi ancorché di efficace fattura.

Quella sera Orlando muoveva la stecca come un acrobata. Vinceva a suon di colpi che facevano fischiare gli astanti. Perché non si fermò in tempo? E da dove viene quell’amaro piacere che trova l’uomo nello sfidare il destino?
Orlando vinceva tutto: partìda, rivìncita, bèla, la bèla de la bèla… Non gli restava che andarsene. Lui restò.
Dopo l’ultimo colpo non doveva fare altro che depositare la stecca con gesto glorioso.

Preferì, dopo aver marcato l’ultimo punto
, tenere la stecca in mano per “portà a sègn la serie”. E la continuò, la serie, lo sciagurato.
Fece una, due, tre carambole magistrali, ne fece cinque, sei, otto e infine dieci. Le palle andavano, venivano si sfioravano e turbinavano, poi schiocchiavano scontrandosi graziosamente, attratte come amanti invisibili. Gli spettatori applaudivano, persino Giulietta, l’ostéra, rigirando delle palanche nelle tasche profonde si era unita nell’ammirazione per quello spettacolo.

Tutto all’improvviso, per un rimbalzo imprevisto, la stecca, slanciata con mano nervosa, scivola sulla palla e la manca: il tappeto si lacera stridendo e si fende in un triangolo fino a far affondare il legno in un abisso del verde drappeggio!!
Se fosse entrato un fulmine dal finestrone che lo avesse colpito in pieno, Orlando non sarebbe rimasto così profondamente colpito e stordito!
Tutti gli avventori si guardarono tra loro, ammutoliti.
Orlando, povero, restò in piedi, instupidito, il corpo ancora proteso in avanti e la bocca aperta.

Fu Giulietta, l’ostéra, a lacerare il silenzio calato con un grido imperioso: “Ciamì so pàder. Nì a sercà sò pàder!”.
In breve il padre di Orlando arrivò. Tutti si attendevano un’esplosione di rabbia, erano financo pronti ad intervenire. L’uomo, invece, fu glaciale.

Parlò con dignità
: “Quànto per el tapé?”
Sesànta frànch, Siòr! Niènt de méno de sesànta frànch” fu la risposta.
“Eco sesànta frànch. La ma dàghe el tapé… sbragàtt”
Portemèl a càsa… chèsto” disse l’uomo porgendo il tappeto arrotolato nelle mani di Orlando.
Si chiesero tutti cosa avesse intenzione di fare ma nessuno osò chiederlo.

Fu tutto chiaro e limpido due giorni dopo, quando Orlando fu visto recarsi alla stazione del tram vestito di verde dalla testa ai piedi. Il giacchetto verde, il gilet verde, le braghe verdi, persino il berretto dello stesso verde. E non era quel verde… “vert pomm”, e nemmeno “vert butìglia”. No, era quel verde… “vért verdènt”, il verde crudele che entra negli occhi e nella testa che si usa per i tappeti del biliardo.
Sulla spalla destra i frequentatori del Caffè riconobbero una macchia lasciata tempo prima da una lampada poggiata malamente sul biliardo, e su quella destra una maldestra striatura amaranto frutto di un bicchiere di vino rovesciato chissà da chi.

A partire da quel giorno la gioventù di Orlando divenne mesta e amara.
Un Orlando malinconico ne fu dapprima prostrato e umiliato. Poi si fece perennemente accigliato e rabbioso. Atteggiamenti che lo segnarono fin dentro la midolla e per lungo tempo.
Un giorno, persino il professore di latino, uno di quei professori “secchi e gnecchi” che si diceva non avesse riso nemmeno il giorno del suo matrimonio, trovò l’occasione di prendersi una maliziosa vendetta verso lo scapestrato studente quando all’appello, anziché pronunciare cognome e nome, chiamò a gran voce “Furioso Orlando!” facendo scoppiare la classe in una grassa risata.

Sei anni durò quella condanna. Il padre fu irremovibile, per quasi sei lunghi anni i vestiti di Orlando furono tratti da quell’inesauribile drappo verde.
La gente, crudele, si abituò ad irriderlo. Fu così che diventò per tutti “el Lözèrta”.
A dire quanto ne soffrì non vi è espressione che si possa avvicinare.
Alla fine di tutto, all’età di ventun anni, col suo tardivo diploma del liceo, furiosamente se ne andò dal paese. Si arruolò nella Legione Straniera e da allora se ne ebbero solo scarne e rare notizie.

Si diceva, al
Caffè del Ponte, che aveva partecipato senza dubbio a tutte le imprese dei Legionari nel Congo, imprese cruente e rischiose… “certo… nel paés dei papagài vert”. Ma queste erano solo celie di paese… si sa.

L’epilogo si ebbe, invece, e me lo ricordò con precisione l’amico, durante un Natale della metà degli anni ’70.
L’Orlando era rientrato dalla Legione da qualche mese. Smagrito e indurito nei tratti da quella vita che sembrava avergli ridato dignità e sicurezza. Ormai il padre se n’era andato e lui, stava riprendendo un poco la vita di paese. Si faceva vedere anche nelle occasioni pubbliche e le sue vicende di gioventù erano ormai lontane, lontanissime.

La lotteria che la Parrocchia organizzava solitamente nei giorni che precedevano il Natale era, a quei tempi, un’attrattiva per tutti. Era un periodo di gran benessere. Quella era l’occasione per ostentare quel po’ di ricchezza che molti avevano, oltre che per fare qualche beneficienza, s’intende.
Orbene, anche l’Orlando si presentò al bancone di quella “Pesca” dove, dopo aver consegnato con autorevolezza un biglietto da 500 lire e, pescata, una gran manciata di biglietti dalla scatola vide i volontari affannarsi a correre per cercargli ogni sorta di “za-ài
Il patrimonio di ogni buona lotteria di paese era fatto di ogni genere di articolo, “tacchi, dadi e datteri” avrebbero detto due comici milanesi.

Ad eccezione dei regali distinti dal biglietto “con la stella”, quelli richiamavano una vincita importante, un premio di sicuro valore. E Orlando ne aveva pescato uno ed ora attendeva con curiosità di vedere cosa gli avrebbero mai portato.
La Legione Straniera non lo aveva temprato a sufficienza per non sentire un violento pugno nello stomaco quando, un ragazzo sorridente e trafelato gli porse il suo regalo stellato: un meraviglioso, lungo e avvolgente “Loden verde” offerto dalla sartoria Fracassi di Prevalle, premio prestigioso e alla moda del tempo.

Orlando lasciò lo stanzone senza dire parola tra lo stupore dei presenti e di lui non si seppe più nulla.
L’amico, terminando di riproporre la triste sorte di Orlando mi rassicurò che qualcosa di simile era accaduta negli stessi anni in Francia, in Provenza, dove uno scrittore, Paul Arène, ne aveva tratto un esilarante racconto…
A me è parso allora che, guardando dal Ponte di Bassina, l’acqua del Naviglio scorresse con una inedita, bizzarra coloritura di un verde brillante e ammiccante.

Paolo Catterina




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