25 Gennaio 2018, 10.40
Eppur si muove

La memoria di un giorno

di Leretico

Gennaio è un mese freddo, spoglio, in un certo senso triste. La tristezza e la ricerca di un po’ di calore sono il malinconico sentire che ci prende durante i giorni più freddi del primo mese dell’anno...


Gennaio è anche il mese del sole che piano piano riconquista gli archi più alti nel cielo, ma è soprattutto il mese della memoria dello sterminio di milioni di ebrei in nome del nulla.

Immaginiamo il freddo nelle ossa di quei prigionieri ebrei, chiusi per giorni in vagoni merci, costretti a condividere il proprio terrore e i propri escrementi nella vergogna della privazione di ogni intimità e nel presentimento continuo della morte incombente su anime rapite, strappate e gettate nella nera disperazione.

Ascoltiamo finalmente con silenziosa intenzione il pianto dei bimbi condotti, insieme a migliaia di altri uomini e donne, nelle camere della morte. Guardiamo per favore in faccia quei facchini dell’orrore che, ammantati di cinerea durezza nei movimenti e negli sguardi, trovati alcuni piccoli ancora vivi e piangenti sotto i freddi corpi materni colti dalla morte nel gesto di un’estrema protezione, li raccoglievano e li scaraventavano contro le pareti per spegnere definitivamente, forse anche dentro sé stessi, l’accusa di quelle voci innocenti.

Tutto questo dobbiamo immaginare, ascoltare e guardare negli occhi per non dimenticare. “Meditate che questo è stato” sussurra Primo Levi, e sappiamo che in quei versi struggenti posti in apertura del suo celeberrimo “Se questo è un uomo”, il calore lì vagheggiato ha disertato colpevolmente i luoghi del suo racconto. Quel calore, assente, è mancato quando più era necessario.

Spirano ancora, dopo tanti anni, e sono passati questi anni forse inutilmente, i venti freddi dell’indifferenza su ciò che è stato, sulla memoria di quei miseri esseri viventi, finiti come stracci dentro un forno che ha bruciato e annerito anche le anime dei forzati, complici involontari.

Vorrei meditare, ma non riesco senza un grido di dolore che nasce dal profondo. Un dolore che vorrebbe essere anche rabbia contro l’ignoranza, contro il cinismo, contro la “banalità del male”, ma non riesce a trovare il suo verso, la sua direzione corretta affinché non sembri manifestazione artefatta, posticcia, ipocrita.

Quella fiamma che distruggeva corpi, e che nullificava l’essere umano, era l’unico calore ammesso nel gennaio di Auschwitz. Quella sicurezza che troviamo e desideriamo nelle nostre “tepide case” fu negata a chi lavorava nel fango e lottava per un pezzo di pane.
L’angoscia del nulla fu l’unica promessa mantenuta.

Il nulla, la ricerca lucida della distruzione assoluta, la rivolta estrema verso il creatore, il mettersi al suo posto in nome della volontà di potenza, nel perfido disegno di padroneggiare il mondo del divenire che tutto distrugge perché tutto sia ricreato. È questo il senso alterato e alienante dell’oltreuomo, il mostro deformato dall’ideologia razzista del nazionalsocialismo degli anni Trenta e degli anni della Seconda Guerra Mondiale.
L’aberrazione totalizzante e nichilistica di un movimento che prese a prestito la ribellione di Nietzsche contro il Dio cristiano e occidentale per forgiare il dio-uomo che nella solitudine crea e distrugge sé stesso, se ha la forza per farlo, se la superiorità della razza a cui appartiene glielo permette.

Tra le memorie che vorrei qui portare in rilievo c’è quella che Albert Camus richiama nel suo “L’uomo in rivolta” (1951) parlando di una piccola cittadina della Repubblica Ceca chiamata Lidice, situata vicino Praga.

Il 27 maggio 1942 un gruppo di partigiani appartenenti alla Resistenza cecoslovacca e addestrati militarmente dagli inglesi, tese un agguato al generale tedesco delle SS Reinhard Heydrich, vice-governatore nazista del Protettorato di Boemia e Moravia. Heydrich, uno degli artefici della conferenza di Wannsee dove si decise la soluzione finale della questione ebraica, morì il 4 giugno successivo. Il 9 giugno 1942 per vendetta i tedeschi distrussero il paese di Lidice dove i partigiani avevano ricevuto presunta protezione e aiuto, fucilarono centosettantaquattro uomini sopra i 16 anni, deportarono duecentotré donne nei campi di concentramento in Germania insieme a centotré bambini, alcuni dei quali riuscirono a salvarsi perché destinati successivamente alla rieducazione ariana in alcune famiglie tedesche.

La particolarità di questa storia risiede nella sua doppia natura distruttiva. Non solo i nazisti uccisero e deportarono tutti gli abitanti di quel paesino nelle campagne della Boemia, cosa orribilmente “normale” per i nazisti in quei tempi, ma cercarono anche, letteralmente e radicalmente, di cancellare il paese di Lidice dalla faccia della terra e dalla memoria delle persone.
Squadre speciali di lavoro dedicarono mesi a “livellare il terreno con la dinamite, far sparire le pietre, colmare lo stagno del villaggio, deviare infine la strada e il fiume (Albert Camus – L’uomo in rivolta – Bompiani - pag. 204)”.

L’accuratezza e la maniacale dedizione a questo annientamento credo spieghino perfettamente la natura del regime nazista, e diano, oltre alle aberrazioni del genocidio perpetrato a danno degli ebrei, un motivo ulteriore per cui è necessario “ricordare”.
In questo caso dunque due volte memoria: prima il ricordo come antidoto all’annientamento fatto sistema, come risposta alla cultura della morte e all’adorazione del “nihil absolutum” inteso come unica alternativa possibile alla vittoria; poi il ricordo inteso come ente presente e “perfectum”, non cancellabile da nessuna propaganda, da nessuna indifferente condotta, da nessun negazionismo, tristemente tragico, ancor più in questi giorni in cui si vedono nuovamente bieche bandiere sventolare all’aria, sopra confuse teste rasate.

Il nazismo fu religione assoluta per la vittoria assoluta, e non sorprende che il suo massimo sacerdote, Hitler, pur potendo fermare la guerra molto prima del disastro totale del 1945, abbia invece scelto il suicidio generale: “fino in fondo, per lui, solo valore è stato il successo. Poiché la Germania perdeva la guerra, era vile e traditrice, e doveva morire. [Diceva Hitler] ‘Se il popolo tedesco non è capace di vincere, non è degno di vivere’”.

Chi inneggia e brama alla potenza assoluta non può far altro che tentare di sostituirsi a Dio, di distruggere un immutabile per sostituirlo con un altro. Così fu per Hitler e per quella società disumana che lo generò. Una società che non vorremmo più rivedere, piena di rancori pregiudizi e indifferenza, male intollerabile che tentiamo di esorcizzare ogni anno con il ricordo, con la memoria di un giorno nel giorno della memoria.





Commenti:
ID75273 - 21/02/2018 08:23:28 - (Pseudosofos) - E l’oblio su Dio?

È importante far memoria che alla base del regime Nazionalsocialista c’era l’ateismo di Stato (similmente al regime Comunista). Fa riflettere che alla giornata della memoria si accompagni spesso l’oblio del fondamento su cui l’industria della morte era costruita. Molti oggi ritengono di poter vivere come se Dio non ci fosse, occupandosi solo di se stessi e del loro benessere. Non è forse questo l’esito di una società (quella dei consumi) che sta radendo al suolo l’anima di molte persone e non il singolo villaggio di cui parla Albert Camus? Oltre a quel villaggio, nello stesso periodo in Polonia si distruggeva Niepokalanow (La città dell’Immacolata) fondata da San Massimiliano Kolbe, martire ad Auschwitz 1. Questo santo diede la vita per annunciare che l’oblio su Dio disumanizza noi esseri razionali. Ricordare questo ci aiuta a riflettere su che tipo di civiltà vogliamo che esista oggi.

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