13 Gennaio 2018, 06.38
Pertica Alta
Terza pagina

Il Carnevale di Livemmo

di Giuseppe Biati

Si parla già di Carnevale. Il professor Biati ci manda questa riflessione sulla tradizione a lui più cara, quella di Livemmo, che però abbraccia anche tutte le altre


Nelle comunità agricole, come la Pertica, dopo la specifica festa di S. Antonio abate, che termina generalmente con l’inizio della Quaresima, il gruppo abbandona  la norma, cioè il quotidiano, decretando un periodo di “caos”, di mondo alla rovescia, nel quale il buffone può diventare re e viceversa, invertendo così l’ordine sociale costituito.

Decade ogni tipo di gerarchia.
Attraverso il mascheramento, arriva il Carnevale: si esce dal quotidiano, ci si disfa del proprio ruolo sociale (soprattutto se basso) e, negando la propria identità a se stessi, si può diventare qualsiasi altro.
Ci si inoltra nel sovvertimento, nell’eccesso, nella lotta o rivalità tra entità e/o ceti diversi, quasi opposti: bene-male, bello-brutto, sacro-profano, maschio-femmina, contadino-allevatore, padrone –servo, ecc.

A Livemmo, nella Pertica, questa interpretazione della vita  raggiunge, nel suo Carnevale, momenti di controllato delirio nelle tre maschere fondamentali, (ma semplicistica ne è tale riduzione): la “vècia del val”, l’”omahì dal zerlo”, il “doppio”. 
Esse portano in campo, anzi in piazza, la ribellione ad uno “status” generazionale, a classi sociali rese chiuse, forse non istituzionalmente, ma da una endemica povertà e conseguente incapacità situazionale a risollevarsi, a condizioni servili umili – quale quella femminile – e di sottomissione totale.

L’uomo privilegiato, la donna asservita;
l’uno dedito alla vita sociale di ritrovo, l’altra rifugiata tra le pareti domestiche; il primo gestore del proprio patrimonio sia umano che pecuniario, la seconda dedita ai lavori dei campi, quelli più noiosi e trascurati dal maschio.

Da qui alla “ribellione” nei giorni carnevaleschi il passo è breve; poi si rientra ciclicamente nel silenzio, nel quasi tutto prestabilito e pattuito, come succede e succedeva in comunità ad economia chiusa, curtense (e non).

Accanto a queste tre maschere – date come fondamentali – pullulano una serie di personaggi della vita quotidiana, ciarliera e bigotta: la vecchia e il vecchio in chiacchierato e rinnovato amore, il contadino nei tradizionali abiti di grezzo fustagno, le vicende notturne di persone che pongono all’attenzione la vivace quotidianità arricchita di sotterfugi, gabbature, rivalse.

Presenza non meno scontata quella del diavolo, tutto rosso, cornuto e munito di forca.
A parte le leggende locali che ne dichiarano la sua nascosta presenza nei balli licenziosi, travestito da prestante giovanotto con i piedi caprini, accompagnato da avvenenti fanciulle, risulta essere il contraltare alla vita di ogni giorno, vita intrecciata di crudi risvolti lavorativi e di inesauribili espedienti per campare la giornata.

E così il carnevale, con tutto il suo gruppo di “comedie humaine”, si snoda, a suon di zufoli e di fisarmonica, di via in via, di piazzetta in piazzetta, raccogliendo, dopo il ballo, nella  momentanea frenesia, quanto la gente può offrire in termini di beni immediatamente fruibili: vino, formaggio, salame, denaro.
Il tutto deve servire ad alimentare la grande cena di carnevale, la sera, tutti in ebbrezza sfrenata e, naturalmente, tutti maschi, ormai svestiti dalle maschere della  multiforme rappresentazione.
Parlare di carnevale è parlare di maschere, le vere protagoniste dei carnevali tutti.

La “maschera” materialmente un manufatto
, di varia forma e di variegato colore, ha un valore simbolico funzionale ad esigenze individuali e sociali.
Appare, nell’uso che ne fa l’uomo, un modo ancestrale di esprimersi, di porsi, di comporsi, persino di “ri-conoscersi”.

Da vivo e, poi, un tempo almeno, anche da morto, prima della sepoltura.
Come le maschere funerarie utilizzate nella civiltà egizia e non solo avevano lo scopo di restituire ruolo pubblico, onore e qualità al defunto per il passaggio nell’aldilà, o di fissare e trattenere l’anima, anche le simboliche maschere carnevalesche fungono da amplificazione del carattere del personaggio rappresentato.
Fissità ed ieraticità sottolineano i tratti del personaggio, ed indossarla equivale ad identificarsi con questo.

Finisce, la maschera, di impersonare l’uomo stesso nel suo ruolo famigliare e sociale.
Ed è significativo come  la scuola psicanalitica adotterà il termine “persona” per indicare la “maschera” che l’individuo assume nelle sue relazioni con ciò che lo circonda.

In tal senso la “maschera”, pur frapponendosi come diaframma tra il volto (l’individuo) e gli altri, non nasconde, ma rivela aspetti della psiche e della personalità, magari tenute nascoste da chi la indossa.
Allora “maschere” e “persone”  coesistono nelle rappresentazioni carnevalesche come subliminali messaggi di vita.

Sono “persone” che ti attraversano con i loro artistici suoni (“per-sona” = attraverso i suoni), ti ammaliano e ti stregano.
Sono “maschere” che attraverso l’atavica “masca” (“masca” significa anche “strega”) hanno l’incanto della magia: una moderna stregoneria, diremmo oggi!

Alla fin fine appare che il Carnevale non è solo gioco di un affascinante sentiero etimologico, dove “maschera” e “persona” semanticamente coincidono, ma, andando ad “essere oltre”, una armoniosa espressione di un non troppo recondito volto dell’animo umano.

In questo senso non vi sarà un grande stacco tra la fantasmagorica messa in scena del martedì grasso e l’approssimarsi dell’incipiente e grigio mercoledì, quello delle Ceneri, “memento” per tutti di caducità e di fragilità.



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