23 Aprile 2017, 10.48
Gavardo Prevalle
Maestro John

La voce del silenzio

di John Comini

Ne hanno parlato radio e televisioni: in una scuola media di Goito, i ragazzi (con la supervisione di professori, genitori e psicologi) hanno fatto il progetto “48 ore senza smartphone”, con l’intenzione di affrontare lo spinoso problema dell’abuso dell’utilizzo del cellulare da parte dei ragazzi.


«Cosa faremo senza cellulare? Moriremo di noia». Sì perché anche durante le gite sulla stessa corriera, anche a distanza di soli dieci posti, i ragazzi si chiamano col telefonino, si inviano foto e si mandano abitualmente messaggi vocali. E per 2 giorni (ripeto: due giorni, mica 2 mesi!) hanno provato a non essere raggiungibili al cellulare. Una sindrome da disconnessione che sembra mandare in tilt gli adolescenti, che in una situazione simile si sentono privati di una parte importante di sé. Molti ragazzi hanno dichiarato di usare il telefono più di tre ore al giorno e anche dalle sei alle sette ore giornaliere. Insomma, un tentativo di entrare nella realtà “vera” dei ragazzi, senza prediche e retorica. 
 
E allora mi chiedo come sia possibile parlare ai bambini della scuola primaria della Festa della Liberazione: è quasi una missione impossibile, persino gli storici più seri faticano a ricostruire tutte le vicende di quei terribili anni. Aldo Cazzullo, parlando del suo libro “Possa il mio sangue servire”, scrive: “È incredibile quanto astio, quanto odio, quanti pregiudizi ideologici - di destra e di sinistra - circondino ancora la giusta, quasi ovvia, per quanto coraggiosa e preziosa, reazione del popolo italiano alla brutale occupazione nazista tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Ovvia, perché il fatto che fosse giusto combattere l’invasore è considerato un’ovvietà in tutti i Paesi occupati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, tranne che nel nostro. Coraggiosa, perché ci voleva molto coraggio a non rispondere ai bandi di arruolamento del generale Graziani, a nascondersi nelle città e sulle montagne, consapevoli che essere scoperti significava andare incontro alla tortura e alla morte. Preziosa, perché la libertà e la democrazia cominciano davvero in Italia soltanto dopo la Resistenza: il vero suffragio universale, con il voto alle donne, è del 1946, perché nella Resistenza le donne avevano avuto un ruolo fondamentale nella conquista della libertà e della democrazia. Certo, i tedeschi furono sconfitti dalla Quinta Armata. Ma se noi italiani abbiamo potuto scrivere la nostra Costituzione, a differenza di altri popoli vinti - la Costituzione giapponese fu scritta dagli americani-, è perché c’era stata la Resistenza… È lo spirito del 25 aprile. Giorni per altri versi terribili, di rese dei conti: perché la Resistenza ha avuto anche pagine nere, che per troppo tempo sono state rimosse e vanno riconosciute… Qui c’è un mistero. Dove trovano i resistenti il coraggio di opporsi alla macchina bellica nazista e alla ferocia delle bande di ventura fasciste? Dove trovano la forza di tacere sotto le torture? Credo che la ragione sia la fede nell’avvenire, la certezza della vittoria finale, la convinzione che il sacrificio non è vano perché servirà a costruire un’Italia migliore. I condannati a morte della Resistenza hanno l’ossessione che i figli studino, per migliorare la loro condizione sociale ma anche per contribuire a rendere il Paese più giusto.
 
Sono andato a rileggermi “Fiori rossi al Martinetto”, il libro in cui il cattolico torinese Valdo Fusi racconta la morte dei suoi compagni. I parenti vanno a salutare i condannati e Paolo Braccini, veterinario, rappresentante del Partito d’azione, riconosce tra la folla la fidanzata. Le grida: «Ciao, cocca!». Lei risponde: «Forza Paolo, che muori per l’Italia! Penso io a tua madre!». Ecco, nei momenti più difficili della crisi, nell’ora del degrado morale del Paese, non è inutile ricordare che non molto tempo fa sono esistiti italiani e italiane così.”
 
“Questa mattina mi son svegliato oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
questa mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor.
Oh partigiano, portami via oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
oh partigiano, portami via, che mi sento di morir.
E se io muoio lassù in montagna oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e se io muoio lassù in montagna tu mi devi seppellir.
Seppellire sulla montagna, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
seppellire sulla montagna sotto l’ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e le genti che passeranno mi diranno: ” Che bel fior “.
È questo il fiore del partigiano, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
è questo il fiore del partigiano morto per la libertà.”

Martedì 25 aprile le classi quarte di Prevalle si ritroveranno alle 10.20 presso il monumento ai Caduti per la partenza del corteo e la commemorazione ufficiale tenuta da un rappresentante ANPI Provinciale. 
I “miei” bambini canteranno “O bella ciao” e la canzone del tricolore. Durante le prove in classe, a sentir cantare i bambini mi sono un po’ emozionato, son sincero. Con i loro bei visi contenti, le loro voci a squarciagola, il loro entusiasmo, mi immaginavo di veder contenti, da qualche parte del cielo, quei ragazzi che si sono sacrificati per la nostra pur deprezzata libertà. Ho cercato di raccontar ai bambini, in poco tempo, i motivi della festa del 25 aprile. Loro mi hanno ascoltato attenti, alla fine molti mi hanno circondato chiedendomi mille cose (uno mi ha detto che Hitler forse è ancora vivo…). Poi è suonata la campanella, arrivederci a martedì mattina. 
 
Con gli amici del Teatro Poetico Gavardo tempo fa abbiamo rappresentato lo spettacolo “L’ultimo inverno”, insieme al Coro La Faita, al maestro Cesare Maffei (al violino) ed a Mauro Abastanotti al sax. Gli attori erano Andrea Giustacchini, Rosa Micheli, Paola Rizzi, Enrico Giustacchini e Renato Meloni (prematuramente scomparso). La supervisione era di Peppino Coscarelli. Abbiamo scelto di raccontare piccole emozioni, di dare voce a storie della Resistenza in Valle Sabbia: frammenti di  piccole storia nella grande storia della guerra. Abbiamo raccontato l’eccidio di Provaglio e la temeraria impresa dei partigiani delle “Fiamme Verdi”,  per liberare il comandante “Renato", ferito e tenuto prigioniero dai fascisti della Rsi nell’ospedale di Salò. Il partigiano “Ferro", ferito mortalmente nell'impresa, perì lo stesso giorno e fu nascosto presso una vicina abitazione fino ai giorni della Liberazione.
Abbiamo utilizzato i libri di molte persone, da Rolando Anni  a Delfina Lusiardi, dalla testimonianza di Caterina Rossi Tonni  nel libro “I giorni del Tesio” alle parole di Angio Zane da Salò, che nel suo straordinario libro Guerrigliero” racconta il taccuino della Brigata Perlasca.
Abbiamo anche scelto racconti di donne della Resistenza. 
 
“Sono spesso le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace. Relegate ai margini della guerra, incarnano l’ipotesi ostinata e quasi clandestina di una civiltà alternativa, libera dal dovere della guerra. Sono convinte che si potrebbe vivere in un modo diverso, e lo dicono.” (A. Baricco)
“Oggi ci sono strane voci nell’aria...Le senti? Sono voci che un orecchio distratto non può ascoltare...
Voci fioche, quasi sussurrate, voci nel vento... 
Voci dolci e fredde nella neve, voci umide di pioggia, voci di paura e voci soffocate nel pianto...
Voci randagie che salgono sui monti, che vanno di balza in balza...
Voci e rantoli di disperazione nel buio di malvagie prigioni...
Voci di attesa, di speranza, voci magre di pasti saltati e di barba lunga...
Voci di donne che aiutano, voci di donne che abbracciano, voci che sorridono
Voci lente e sapienti di vecchie che dicono il rosario, che aspettano il figlio lontano...
Voci gracchianti di radio nascoste, voci di giornali clandestini, di muri screpolati, di lettere scritte a matita
Voci amiche e voci nemiche, voci di una guerra che è sempre una brutta storia
Voci di uomini e di donne che hanno scelto da che parte stare, voci di gente che ora non è più, voci di vento
Voci lontane. Voci dimenticate, voci travisate, voci che qualcuno vorrebbe cancellare...
Voci di una valle, voci dell’ultimo inverno...
Fermati un momento...ascolta...Oggi ci sono strane voci nell’aria...
 
L’ultimo inverno aveva già visto la fine delle illusioni del regime, della retorica, la fine delle marce e delle adunate... Andavamo con le nostre belle divise da balilla, da giovane italiana, ecc. Eravamo orgogliosi dei gradi che ci davano, si sfilava nelle città. Eravamo cresciuti in quel clima ma come ideologia non ce n’era, neanche l’ideologia fascista, era un modo di vivere con il quale eravamo cresciuti. Ma poi abbiamo capito. Nell’iniziare a chiamare i miei fratelli, han chiamato altri giovani ancora... Un po’ per volta insomma han chiamato tutti: qui in paese non c’era più nessuno.  Sembrava ci fosse il deserto. Chi era finito in Russia, chi in Africa, chi in Grecia, e i pochi reduci, tornati, non erano più quelli. Eravamo cambiati... C’è stato il dolore degli alpini in Russia,  le 100 mila gavette di ghiaccio, lo sbandamento del nostro povero esercito dopo l’8 settembre del 43...Alle prime ore del mattino, le nostre truppe che presidiavano la città a tutti i punti strategici hanno ricevuto l’ordine di lasciare le armi e di salvarsi fuggendo, travestendosi con abiti borghesi... Abbiamo nascosto le divise nel sotterraneo ... Terrore, terrore grande di andare in mano tedesca e allora: la fuga! 
 
L’ultimo inverno aveva già visto un anno di guerra partigiana.
Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo. Il loro disprezzo è la nostra esaltazione. Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale. Contro chi nega il diritto a pensarla diversamente, a vivere in libertà. Contro stranieri e nostrani che vogliono continuare nella sopraffazione e nella prepotenza totale, contando sulla paura e sulla codardia. Ribelli! Per essere liberi.
 
L’ultimo inverno aveva già visto l’aiuto delle donne...
 “C’era la guerra, o eri di qui o eri di là...Insomma uno che aveva un po’ di dignità umana non poteva essere dall’altra parte perché anche qui a Brescia ne han fatte tante, ma tante, ma tante....
Ho visto questi giovani che scappavano sulle montagne e lì ho percepito la necessità di un aiuto...Perché quando ta edet le persune che le gha bisogn el vè istintivo...”
 
“Quel periodo lì in cui facevo la staffetta era stato un periodo anche emozionante, diciamo... non so neanch’io...non so mica tanto parlare... Ci si sentiva gratificati, ci si sentiva felici. C’era l’idea che quando si tornava, che si poteva tornare, potevi consegnare quello che avevi ricevuto... Girando di notte neanche mi veniva in mente di avere paura. Ecco.”
 “Il mio nome di battaglia? Forse perché ero bassotta e piccolina, mi chiamavan “Topolino”. Veramente ho dei ricordi belli. Belli e nello stesso tempo tristi, perché si vedevan ‘sto ragazzi, con una fame da morire....Mi ricordo che siamo andati in bicicletta su in Degagna, con questo zaino a spalle. Poi la bicicletta si lasciava giù e si saliva a piedi. E...ho sempre sotto gli occhi la visone di questi ragazzi, vicino a  un fienile, seduti su un muretto, che come m’han visto arrivare sembrava che arrivasse dio. Avevano gli occhi che luccicavano come stelle, a guardare così perché ci portavamo da mangiare.”
 
Santina Dusi è maestra a Presegno, viene a contatto con i partigiani della Valle Sabbia, i quali vanno nella sua classe per ascoltare la radio. Diventa staffetta, mantenendo i contatti con i partigiani della Valle Sabbia cui porta munizioni, cibo e denaro. Arrestata con l’accusa di essere spia e morosa di Toni, viene interrogata a Idro e subisce maltrattamenti e torture. Imprigionata nel carcere di Brescia, viene liberata con uno scambio di prigionieri. Nuovamente ricercata, deve abbandonare casa e lavoro e rifugiarsi a Castenedolo presso la famiglia di Toni, comandante della Brigata Perlasca, che sposa il 21 gennaio ’45. “Il ritorno sulla neve, con le foglie, coi fascisti in giro...il viaggio di  nozze, con la pistola...tu scappa di là...io scappo di qua...Toni torna indietro, io vado a casa dove aspetto che lui arrivi...Il giorno dopo comincia a nevicare. Nevica, nevica... Invece di lui arriva uno, con un biglietto e fa: “E’ tutto il giorno che ci penso, ma non so dove portarti. Arrangiati, vai dove vuoi”. E io mio sono arrangiata...” Non potendo però rimanere in montagna, va da alcuni parenti a Gavardo dove si trova durante il bombardamento che colpisce il paese.
 
L’ultimo inverno aveva già visto le torture, le fucilazioni... Questa è la lettera di un condannato a morte: 
“Mamma, papà, sorelline adorate, ho appena salutato la mamma, ed ora, alle ore 15.30, mi hanno dato la notizia che stasera avverrà l'esecuzione della mia condanna.
Non ho rimpianti nel lasciare questa mia vita, perché coscientemente l'ho offerta per questa terra che immensamente ho amato e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace del mondo e soprattutto per la mia diletta Patria, alla quale auguro figli più degni e un avvenire splendente.
Mamma, papà, sorelline, a Dio realmente a Dio, dove spero ritrovarmi stasera.
Mamma papà sorelline, ricordatevi di me, io sarò sempre con voi, per tutta l'eternità.
A Dio, il vostro Peppino”
 
Racconto delle ultime ore di Emiliano Rinaldini.
Nelle prime ore del mattino del 7 febbraio, i fascisti erano saliti a Odeno, in cerca di 4 prigionieri slavi fuggiti dal campo di Vestone e che si diceva fossero tenuti nascosti in un fienile dal parroco don Lorenzo Salice. Odeno venne circondato.
Sentimmo che nel cortile si parlava italiano. Ci alzammo immediatamente: io avevo con me una Browning e delle bombe a mano. Uscimmo dalla casa per una porta che si trovava a monte del paese. Un fascista ci vide e ci dette l’alt. Noi ci mettemmo a correre. C’era la luna piena ed eravamo perfettamente visibili sulla neve. Per fortuna spararono con dei moschetti e non coi mitra.
Emi Rinaldini aveva una pistola in tasca. Decidemmo di fuggire verso il basso, saltando dal muretto che dava sul prato a valle del paese. Nascondemmo sotto la neve il mio zaino e la pistola di Emi per non farci prendere armati. Un milite della GNR, che non pensava certo di catturare dei partigiani ma di rastrellare degli sbandati che cercavano di scappare, ci fermò e ci disse di seguirlo. Ci precedette senza puntare l’arma contro di noi. Arrivati ad un punto da cui si poteva salire sulla strada che passava in mezzo al paese, fece salire Emi e poi, dopo essere salito anch’egli, si girò verso di me. In quel momento mi buttai verso il basso. La discesa era molto ripida. Il milite mi sparò senza riuscire a colpirmi.
 
Anche Emi Rinaldini cercò di fuggire verso l’alto, in direzione della chiesa di Odeno, ma la neve gli rese lenta la fuga. Inseguito, venne condotto via, le mani legate da una corda. Un altro ribelle, Cesare, fu gravemente ferito.
Verso le otto del mattino, tutti i fermati (compreso il parroco don Lorenzo e il sacrestano “Tonèla”), vennero condotti nella casa dei “Baldì” dove si svolse un primo sommario interrogatorio e venne contestato al parroco di nascondere dei prigionieri iugoslavi, che però i militi non avevano trovato.
 
Poco dopo, incolonnate, tutte le persone fermate partirono per scendere a valle, con Cesare su una barella.
A Livemmo venne fatta una prima sosta davanti al Municipio, dove i fascisti minacciarono di buttare dalla scarpate Cesare. Carla Leali e la madre ottennero che il ferito venisse lasciato a Livemmo per essere curato.
 
Mia madre diceva: Lasciatelo qui, io lo curo e voi avete la mia figliola in ostaggio. Io mi misi a parlare con un fascista e, in disparte, cercai di convincerlo a non infierire su Cesare. Fossero decisi o meno a buttarlo nella scarpata, alla fine lo lasciarono a Livemmo.
La colonna quindi proseguì, attraverso la mulattiera, per Mura, poi raggiunse Casto. Racconta don Lorenzo:
Interrogatorio davanti al Tenente Bianchi. Il tenente domanda ai miei parrocchiani se conoscevano i ribelli. Emi prontamente risponde loro:- Io non li conosco e perciò essi non conoscono me. Un giovane sottotenente dice di conoscere Emiliano Rinaldini. E’ un suo compagno di scuola, assieme avevano frequentato l’Oratorio dei Padri della Pace e sa che Emi è studente all’Università Cattolica. Allora Bianchi dice con tono ironico: - E’ stato padre Gemelli ad insegnarti a fare il ribelle? - Emi non rispose
Da Casto, su un carretto, Emi, don Lorenzo e altri rastrellati raggiunsero Vestone da dove, su di un camion carico di legna, furono portati ad Idro all’Albergo Milano dove giunsero verso le 5 del pomeriggio.
 
Durante il trasferimento a noi prigionieri non era possibile parlare. Solo approfittando di un momento in cui le guardie non mi guardavano, ebbi un po’ di coraggio sacerdotale e mi rivolsi a Emi, fissai i miei occhi nei suoi e poi li rivolsi al cielo come per dire che non ci restava che confidare in Dio. Emi comprese benissimo il messaggio e rispose con egual gesto, tenendo la testa immobile ed eretta, e rivolgendo gli occhi al cielo.
Nel carcere di Idro i prigionieri vennero divisi: don Lorenzo venne interrogato e il sacrestano “Tonela” venne colpito con un bastone. Rinaldini: interrogato, insultato, minacciato, invano sottoposto a tormenti perché parlasse. I documenti scoperti nel sacco di montagna, che aveva cercato di porre in salvo, lo denunciavano. Il diario delle sue veglie alpine che aveva con sé rivelò inutilmente l’animo del dolce e fiero ribelle per amore.
 
La notte del venerdì precedente la sua morte, mentre sdraiato sul pavimento tentava con le mani incatenate di prendere la corona del rosario che aveva nella tasca, per il rumore che la catena faceva e che disturbava i fascisti, ricevette pugni e calci. Ciò nonostante fece tanto che poté prendere la corona e solo allora si acquietò. Perché indicasse i nascondigli delle armi, lo riportarono sulle balze delle montagne che avevano visto la sua presenza. Non una sola parola uscì dalle sue labbra.
A mezzogiorno del 10 febbraio raggiunto Belprato, fu trascinato fuori del paese. Gli tolsero le scarpe. Il suo vecchio compagno di scuola gli gridò: - Fuggi! Sei libero!
S’incamminò per il sentiero. Gli scaricarono addosso una raffica di 14 colpi di mitra. Cadde in ginocchio e “L’imitazione di Cristo” che portava con sé s’arrossò di sangue. 
 
I fascisti portarono in giro come grotteschi e macabri trofei le sue scarpe sopra la baionetta apostrofando i paesani e chiedendo loro se avessero visto in giro un bandito scalzo. Sulla corteccia dell’albero presso il quale cadde, una mano ignota incise le seguenti parole: “Qui uccisero Emi, un angelo della terra”.
 
E qui, vi dirò, tutte le popolazioni della Pertica a fare il funerale come si fa a un eroe. Senza paura. Gli uomini giorno e notte, per due giorni, di giorno e di notte, a fare la guardia perché se arrivavano ancora, non si poteva fare.
Quindi è stato messo nella sacrestia, in una stanza lì vicino alla chiesa. Noi ragazze tutte insieme siamo andate a prendere il pungitopo e i fiori, i bucaneve, l’elleboro e abbiamo fatto una corona...proprio così. Tutte insieme, abbiamo fatto una corona con l’elleboro. Ed era tutto un pellegrinaggio per andare da Emi, e venivano da tutti i paesi, persino i vecchi, tutti lì a trovarlo... era un omaggio a Emi e una dichiarazione di spirito antifascista. Io ha anche scattato le fotografie a Emi, avevo anche tagliato una ciocca dei suoi riccioli. Appena finita la guerra sono andata dalla sua mamma e glieli ho dati.
 
Tutti sanno che nella tasca abbiamo trovato l’imitazione di Cristo insanguinata, ma la cosa che ho trovato io e che mi ha fatto piangere... mi ha fatto una pena: una... due nocciole... mi è venuto un nodo alla gola, a vedere quelle due nocciole...”
E adesso mi viene da piangere, scusate…
“L’ultimo inverno sembrava non finisse mai... 
Ancora neve, ancora sangue, ancora rovine... 
C’era stato il bombardamento di Gavardo, che pianse i suoi 52 morti... 
C’erano stati gli sfollati, le rabbiose mitragliate dei convogli tedeschi, c’erano stati i sabotaggi, gli scioperi, i lanci avio-trasportati... 
Le madri aspettavano con ansia e trepidazione il ritorno dei propri figli dalla prigionia, e spesso non avevano più lacrime.......  
 
Poi all’improvviso...
“È finita la guerra, è finita la guerra: possono tornare in paese, possono scendere dai monti”. E io sono partita, sono andata in cima ai monti lassù, tutta dritta dritta ad avvertire che era finita la guerra. Ma lo sapevano già, perché le voci son corse alla svelta e tutti sapevano che la guerra era finita e potevano tornare giù. 
E poi vedere tutta la nostra gente che camminava libera, che non aveva più quelle preoccupazioni... chi andava in bicicletta, chi cantava. E abbiamo fatto festa, ma proprio una grande festa: tutti, tutti, tutti assieme. C’erano i partigiani, c’erano i nostri del paese e c’eravamo noi ragazze. Avevamo fatto i biscotti, avevamo fatto la polenta taragna, abbiamo fatto una gran bella cena e siamo stati su tutta la notte a cantare. 
E allora tutti nelle strade, a sventolare il tricolore! E gli abbracci, e la gioia, e i balli americani... Si vedeva il mondo bello, si immaginava un mondo magnifico, si credeva che avrebbe trionfato la giustizia, che gli onesti sarebbero stati a capo di tutto, che questa guerra sarebbe stata l’ultima... Certo, in mezzo alla baldoria già si aggiravano gli opportunisti, i voltagabbana,  gli “spartigiani”.... Ma intanto in quell’aria di primavera  si sentiva solo una voce: E’ finita!
 
Sentiamo suonare  la torre... Allora abbiamo detto: - E’ finita, è finita!
Non ce l’aspettavamo, proprio non ce l’aspettavamo. E’ finita, è finita...
E siamo scesi tutti in strada...E’ finita! E’ finita!
Lì ci abbracciavamo tutti, ci abbracciavamo e gridavamo:- E’ finita, è finita!
Una cosa bellissima, davvero. E ad un certo punto uno che neanche conoscevo mi abbraccia: - E’ finita, è finita, la guerra è finita!
E poi arriva mio papà, ho visto mio papà. L’abbraccio più forte: - Papà è finita!
Continuavo a dire: è finita, è finita!
Siamo saliti in casa, è stata una gioia... Era la fine di un incubo...Era finita....
Sì, quel freddo e terribile ultimo inverno era davvero finito.”       
 
Termino con le parole che ha scritto Mario Rigoni Stern dedicate all’amico Primo Levi, chimico e partigiano, scampato al campo di concentramento di Auschwitz e morto l’11 aprile 1987. “Ieri, caro Primo, era una giornata splendida di primavera e le api raccoglievano polline e nettare dai crochi e dalle eriche. Ho visto il ritorno delle prime rondini e il bosco risuonava dei canti degli uccelli in amore. 
Ma io piangevo perché tu te n'eri andato. 
Oggi il cielo è velato e un temporale gira per le montagne. Ma non piango più perché ho nel cuore il tesoro che tu mi hai lasciato e che mi aiuta a essere meno stupido e meno cattivo. Ciao Primo, arrivederci tra quelle nostre montagne nascoste; te lo voglio dire, anche se tu sorridi mesto a questo mio "arrivederci". 

“Non ci sono liberatori, solo uomini che si liberano” (il Ribelle)
 
“Nonno, mi dici sempre che dobbiamo imparare dai morti. Ma che cosa dobbiamo imparare da loro?” E il vecchio partigiano rispose: “Le ragioni per cui sono morti”.
 
Ci sentiamo la settimana prossima, a Dio piacendo

maestro John Comini                                                                                                        
 
Nella foto: la chiesetta di San Bernardo appena fuori dall'abitato di Belprato, luogo della barbara uccisione di Emiliano Rinaldini
 


Commenti:
ID71796 - 23/04/2017 22:37:26 - (Iva) - Bravo Maestro Comini

Bisogna lasciare queste testimonianze x i bambini ed i giovani che sappiano quante sofferenze hanno avuto i partigiani che lottarono per la libertà per tutti noi e per un'Italia finalmente libera, Molti non la sanno apprezzare, ma senza libertà l'uomo è finito. Grazie Maestro Comini per il tuo racconto con parole semplici che possono capire anche i bambini. Per me sempre viva la libertà

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