25 Dicembre 2016, 18.24
Fenomenologia della filosofia

Vi auguro la vera felicità

di Dru

Sto leggendo "Intelligenza emotiva" di Daniel Goleman ed esso dice ad un punto: "L'impulso è il mezzo dell'emozione; il seme dell'impulso è un sentimento che preme per esprimersi nell'emozione...


.... Chi è alla mercé dell'mpulso (chi manca di autocontrollo) è affetto da una carenza morale:
La capacità di controllare gli impulsi è alla base della volontà e del carattere."
 
Perché Daniel sbaglia? Perché è uno psicologo e non un filosofo, dunque presume il mondo e non lo mette in discussione.
 
Proviamo a dire così e ditemi dove sbaglio io invece se ci riuscite:
 
Chi è alla mercé dell'impulso è affetto da una potenza morale.
 
Dice, sempre il nostro Goleman, che i nostri sono tempi nei quali il tessuto della società sembra logorarsi a velocità sempre maggiore, nei quali l'egoismo, la violenza, e la miseria morale sembrano congiurare per corrompere i valori della nostra vita di comunità.
 
Traduco in ontologico: il tempo è sovrano sui vincoli, ogni vincolo nel tempo, ogni relazione, proprio per l'esser tempo, hanno un inizio uno sviluppo e una fine. Dunque il tessuto della società necessariamente nel tempo si logora e non solo sembratamente.
 
L'egoismo nel tempo è pensare di fermarlo (il tempo); la violenza pensare ai vincoli necessari inscindibili, immutabili, incontrovertibili; la miseria morale il limite della potenza, tale che corrompere i valori della nostra vita di comunità è la sua potenza.
 
Il tempo signori, il tempo, se vogliamo essere in esso.
 
È questa del tempo l'ultimatività dell'essere? Siamo dunque nel tempo?
 
Vedete, mentre i Goleman, la scienza in genere, non solo non comprendono che parlare del tempo cercando di negarne il carattere senza discuterne il significato è inutile, ma è presumere di esser del tempo e dunque non prefigurano che possa il tempo ad essere, ma presumono appunto il tempo, tuttavia la filosofia ha il compito di metterlo in discussione.
 
Perché la domanda, che d'altra parte ha risposta, e che produce la presunzione scientifica è questa, è l'essere nel tempo o è il tempo ad essere?
 
Dice ancora Goleman che dal punto di vista dei biologi evoluzionisti, il sacrificio dei genitori è un comportamento che tende ad assicurare "il successo riproduttivo, ossia la buona riuscita del passaggio dei propri geni alle generazioni future.
 
D'altra parte, se è visto con gli occhi di un genitore che stia prendendo una decisione disperata in un momento critico, lo stesso atto non è altro che amore.
 
Dice Severino sull'amore che è il Convivio il testo in cui Platone porta alla luce nel modo più compiuto il legame che unisce, all'inizio della storia dell'occidente, la convinzione e la volontà di vincere la morte alla convinzione (che è a sua volta volontà, fede) che la vita sia divenire altro.
 
Eros "amore", "brama", "desiderio", "aspirazione", "passione", "trasporto": nella forma più intensa - desidera quel "bello-che-è-anche-bene" (kalon kagathon), che rende "felice" (eudaimon) chi lo possiede (204 d-205 a). Ma il "bello che è anche bene" è tale solo se è "posseduto" dall'amante (204d) e se è posseduto sempre; si che "Eros" è "desiderio di possedere sempre il bene". Il testo greco dice: ho eros tou tagathon einai aei (206a) "che qualcuno possegga qualcosa traduce cioè l'espressione greca ti genesthai autoi (204d), che alla lettera significa "il generarsi (di) qualcosa in costui (per costui, a costui). Che qualcosa venga a generarsi in qualcuno significa che costui diventa altro: quell'altro che è egli stesso, ma ormai in sintesi con la cosa che in lui è venuta a generarsi.
 
Eros, o desiderio di possedere il bello e il bene è dunque, da parte del desiderante, il diventare quell'altro da sé che è sé stesso in sintesi con il bello e il bene che sono venuti a generarsi in lui..omissis.. In eros, come desiderio di possedere sempre il bene e il bello, il posseduto per sempre non è più dunque un generarsi di qualcosa nel desiderante , ma è l"essere" (einai) di tale qualcosa, l'essere in lui.
 
Appunto per questo, mentre il semplice "possesso" è indicato dall'espressione "genesthai autoi", invece il "posseder sempre" è indicato dall'espressione "autoi einai".
 
Il nominativo, di cui "autoi" è il dativo, è autos: "egli", "egli stesso", cioè "egli nel suo esser lo stesso di sé", nel suo "esser sé".
 
Proprio perché eros è il desiderio che qualcosa d'altro dal desiderante venga a generarsi nel desiderante, proprio per questo eros non è mai uno "stesso", non è mai un restar sé stesso: è sempre altro da sé.
E, nella vita, questo si rende visibile sia in quella forma del divenir altro che è la generazione dei figli da parte del padre e della madre (206 a sgg), sia "per il tempo in cui di ogni vivente si dice che vive ed è lo stesso" (epei kai en hoi hen hekaston ton zoion zen kaleitai einai tauto, 207d), cioè si dice l'esser stesso, di ciò che propriamente non è mai lo stesso.
 
Ora in Goleman quel d'altra parte dell' amore che non è lo stesso della conservazione non tiene conto della duplice immagine di Eros che proprio in quanto volontà crede di esser lo stesso ma non lo è mai.
 
In Eros non è d'altra parte, l'amore per il figlio, il posseder un bene sicché la conservazione verrebbe sì negata, ma è il significato stesso di conservazione.
 
Infatti così Severino conclude questo interminabile capitolo sull'eros in "Oltrepassare": Eros ha fatto diventare altro le cose vecchie, le ha fatte diventare cose nuove, annientandole in quanto vecchie. Ha annientato anche la morte (kai ho thanatos ouk estai eti) e il dolore (oute ponos ouk estai eti, 21, 4). 
 
(Fondamentale per comprendere l'errore insito in Goleman e la sua astrazione del concetto di amore questa conclusione)
 
Eros annienta la morte e il dolore; e non sa che l'essenza della morte e del dolore è la fede nell'annientamento delle cose.
 
L'Eros che chiede trionfante alla morte dove sia il suo "pungiglione" (pou sou thanate, to kentron, 1cor, 15, 56) parla con quel pungiglione conficcato nella lingua.
 
Proseguiamo sulla strada della conoscenza e non facciamoci intimidire dai giudizi che non hanno gambe per camminare.
 
Sorge abbastanza chiaro dalla lettura delle prime poche pagine, che il Goleman cosi gustosamente mi ha apparecchiato, che egli separa il mentale dall'emotivo, in una sorta di apoteosi illuminista kantiana, dove il primo contenuto è bagaglio tutto personale, mentre il secondo è un processo indotto dalla natura dei fatti o dell'ancestrale.
 
Si trova egli nelle stesse condizioni in cui Kant si trovò ad essere nella sferzante critica fattagli dallo Hegel.
 
Sentite qui, dice: Nel cercare di comprendere come mai l'evoluzione abbia conferito all'emozione un ruolo tanto fondamentale nella psiche umana, i sociologi indicano -quale possibile spiegazione- proprio questa prevalenza del cuore sulla mente, nei periodi più critici della vita. 
 
E sottolinea, perché non fosse già ben compreso lo strappo di cuore e mente: Essi sostengono che le nostre emozioni ci guidano nell'affrontare situazioni e compiti troppo difficili e importanti perché possano essere affidati al solo intelletto.
 
Ora vi dimostrerò, anche mostrerò, perché questo dire è contraddittorio.
 
Sembrerebbe vero, da questo discorso, che nei momenti fondamentali l'intelletto viene dopo le emozioni, presupponendo che le prime non siano del suo contenuto, infatti se solo lo fossero, significherebbe che non sarebbe possibile dichiararne la destinazione, ma semmai il principio delle emozioni.
 
Dicevo sembrerebbe, perché all'analisi di questo sopra che è un concetto, non un'emozione, per come l'emozione viene propriamente descritta dall'autore da me criticato, tutto quanto detto gli è contenuto.
 
Sicché anche l'emozione e i cuore che egli vorrebbe fuori, come espressione di volontà di potenza.
 
La contraddizione è che Goleman vorrebbe come fondamento di qualcosa quel qualcosa che è fondato da ciò che vorrebbe il solo fondare, altrimenti è una petitio principi quello di voler con concetto dire che il concetto è il risultato di un'evoluzione, ipotesi non solo ben ardua, ma destinata inevitabilmente, inequivocabilmente e incontraddittoriamente al suo fallimento, in quanto nega ciò su cui si fonda, è autonegantesi dunque. 
 
Il primo passo contraddittorio, ma già fatale, di Goleman sta nel ridurre il mentale alla sola attività cerebrale, prima contraddizione, se così riduci il mentale non puoi appunto pretendere di far parlare il cuore con il suo linguaggio (il linguaggio del mentale), infatti se il cuore è solo differente al cervello poi ti risulterà impossibile, anche durante tutto il corso del libro cercarne la ragione unificante, se non per volontà.
 
Il mentale è il trascendentale, cioè è sempre in atto in ogni cosa e significato, tale che separarlo da cosa e significato significa negarlo, cioè significa negar cose e significati, tale che, significa nulla, anche il mentale stesso che lo si vorrebbe diverso ma non un nulla.
 
Io mi chiedo, sinceramente un poco stupito (emozione), possibile che dopo ben 2500 anni da quel Parmenide che disse "lo stesso è pensare e essere", in questa violenza nei confronti del seppur semplicissimo ma notevolissimo e fondamentalissimo principio, gli scienziati invece di presumere di sapere e di rendersi ridicoli al cospetto del pensiero non si impegnano a guardare quale siano le origini delle loro astruse ipotesi?

Dru
 


Commenti:
ID70324 - 27/12/2016 15:14:54 - (Dru) - con simpatica ironia

per chi si sentisse uno scienziato

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