19 Novembre 2015, 16.55
Valsabbia
Terza pagina

Una riflessione

di Giovanni (Beppe) Biati

A margine della presentazione della ristampa anastatica de “Il Ribelle” e “Brescia libera”, lo storico Giuseppe Biati ci ha regalato questo intervento. Dà indicazioni sul futuro di tutti noi. Lo pubblichiamo volentieri


Dissertare sulla Resistenza, con il portato dei suoi valori, è necessità viva ed impellente oggi più che mai.
Importante è definire il fatto storico, le sue implicanze, le sue processualità per poterle meglio declinare, in un momento, come questo che stiamo vivendo, dove il rapporto presente-passato-futuro entra in una specie di cono d’ombra, sia a livello individuale che collettivo.

Cultura e politica sembrano perse in una preoccupante abdicazione al compito: l’una deferente ed ancillare, l’altra alla spasmodica ricerca di vuoti plausometri di consensi.
Conquiste resistenziali, come pace, libertà, democrazia, giustizia sociale, primato del diritto si danno un po’ smarrite, anziché attualizzate con maggiore e più icastica incisività.

Se è vero che il superamento delle ideologie è stato l’inizio di un percorso virtuoso, non vorremmo che si fosse arrivati ”alla negazione delle idee… alla rinuncia più grande: la rinuncia alla ragione” (1).

L’analisi (spietata) del presente (che alcuni filosofi moderni fanno) ci porta a vedere questa società come “un deserto popolato di singolarità intercambiabili e di moltitudini anonime” (2), frammentazioni storiche, agevole precondizione per “servitù volontarie”.

Pare aleggiare un offuscamento generale.
Il “che fare” si disgiunge dal “come fare” e il “che cosa” dall’”a che scopo?”.
Non solo “nulla sta più al suo posto”, ma “nulla ha più un posto” (3), con la derivante conseguenza del “tacere” e dell’"andare avanti”, automi nella notte.
La privatizzazione del sociale riempie la “res pubblica” che è pertanto svuotata della sua sostanza.

E la politica, costituitasi per la mediazione di interessi particolari per un superiore bene collettivo (“res pubblica”, appunto), perdendo la sua misura e il suo spazio, sembra perdere se stessa.

Cosa resta della politica, come nobile e indispensabile azione per la polis, in un mondo globalizzato? Tematica da ben approfondire.
E’ un allarme lanciato contro la dittatura del presente, che per essere recuperato deve ricondursi ad un rigoroso discorso sui fini.
Come testimonianza di estrema resistenza alla “distruzione della ragione”, noi dobbiamo dotarci del coraggio per una impresa possibile e doverosa.

Ci convince il fatto che una democrazia radicale e sostanziale, strettamente legata alla giustizia sociale, non ha alternative ed essa è minacciata oggi dalla logica sovrana, incorporea e immateriale, della pura finanza, col suo potere di asservimento attraverso crisi ripetute e che si vogliono intenzionalmente ininterrotte.
Per contrastare questo potere, la democrazia deve insistere (stare immanente) in uno stato di perenne allerta e, “insorgente e quotidianamente autocostituentesi” (4).

Ma non solo.
Deve processualizzarsi ed arricchirsi di nuovi e più consoni volti, verso equità sociali, culturali ed economiche (5).
Il tema è come "resistere", oggi in Europa, all'onda lunga di un sistema (che molti chiamano col nome di liberismo sfrenato) che sta producendo guerre e crescita zero, disoccupazione e ondate migratorie, con "espulsione delle persone dalle condizioni economiche e sociali precedenti e dai loro progetti di vita".

Ecco perché dobbiamo impossessarci del "coraggio di una impresa possibile e doverosa" per contrastare culturalmente, prima che materialmente, le spietate logiche, invisibili ed impalpabili (ma presenti e radicate), di una finanza (leggasi capitalismo finanziario) che guida, complici demagoghi e populisti, verso lidi di esasperazione sociale e di annichilimento dei termini (che devono essere vivi e vissuti) di cittadinanza attiva e di partecipazione democratica.

A forza di maledire la solidarietà come buonismo, di sostituire l'accoglienza con la paura dell'invasione, di vedere la corruzione come dato inestirpabile e di assuefazione, ecc., siamo piombati, a parte un fremito di pietà per l'immagine crudissima di un bambino morto su una desolata spiaggia, nel torpore dell'indifferenza e nel rigore della paura.
Fino a quando?

Anche sulla stessa Resistenza e sulla Lotta di Liberazione vi sono stati tentativi di una lettura imprecisa, diminuita, quand’anche non compresa e non studiata.

Lazzero scriveva:
Noi tutti abbiamo notato che la gente – in particolare i giovani – guardano i vecchietti che si batterono in città, in montagna o nei lager come residui di un “carnevale incomprensibile”!
Ciò non può essere!

E’ bene, oggi, studiare la “storia”, sondare la “verità della storia, togliere anche i miti e frantumare i luoghi comuni, ma l’essenziale è cogliere la sostanza e il valore su cui si fondano i princìpi e le regole fondanti una Repubblica democratica.

Perché la Resistenza non sia l’ultima parte del libro di storia (storia della vita) che non va a compimento, urge una sua maggiore comprensione (contro la volontà diffusa di incomprensione), una valida memoria (contro l’“immemoria”), una profonda capacità di riproporre, attualizzandoli, valori e ideali, sapendo che il fascismo è camaleontico, di facile presa sulla pancia laddove la mente, per convenienza, ha abdicato alle sue funzioni: “…i fascisti son tornati in scena, a gran richiesta degli Italiani immemori”.

Cosa fu la Resistenza di allora se non ribellione ai conformismi,
alle ingiustizie, alle privazioni delle libertà, al fascismo, per costruire la comunità degli uomini, l’etica della responsabilità, il senso della giustizia sociale, il valore dell’educazione e della formazione dei giovani, il diritto alla salute, all’abitazione, al lavoro!

Lo scriveva, a modo suo ma in maniera eccezionalmente esimia, Bortolo Fioletti (Poldo, trucidato a Monno il primo aprile 1945) nelle sue ultime righe (ultime a sua insaputa):
“Cara Mamma, non piangere per me.
Perdonami e pensa se io fossi stato tra coloro che martirizzano la nostra gente (…).
Presto verremo giù, e vedrai che uomini giusti saremo.
Allora si vivrà con la soddisfazione di vivere e non con l’egoismo di oggi”.


A 70 anni da questo auspicio, nella transizione dal “secolo breve” all’ancora indefinito, ma già problematico, nuovo millennio, da grande storico qual era, Tony Judt ci indica le possibili sfide:
“La scelta con cui si confronterà questa generazione non sarà tra il capitalismo e il comunismo, o tra la fine della storia e il ritorno della storia, ma tra la politica della coesione sociale basata sugli scopi collettivi e l’erosione della società per mezzo della politica della paura”.
Con il coraggio di una impresa culturale possibile e doverosa siamo  fortemente schierati per una compiuta realizzazione della prima opzione.

(G. B.)

(1)  Generoso Gallucci, Critica al terribilismo, 1924.
(2)  Pietro Zanelli, Saggio, 2015.
(3)  Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, 1982.
(4)  Miguel Abensour, Per una filosofia politica critica, Jaka Book.
(5)  Come pensare ad un Paese democratico dove il 15% della popolazione detiene il 70% della ricchezza prodotta, dove l’80% della tassazione è ricavata dal lavoro dipendente, dove si nega il lavoro al 43% della propria popolazione giovanile? E così via!




Commenti:
ID62671 - 22/11/2015 09:48:46 - (Dru) - Cosa significa tramonto delle ideologie?

significa tramonto delle verità, anche di quelle sui valori. L'Europa dei valori si trasforma in Europa del nichilismo. Non sono più i valori a comandare le forze in campo, ma la necessaria contingenza. Oggi Obama ci rassicura che fermerà l'Isis, il telegiornali traducono questa voce in "distruzione". Si tratta di capire che in questa parola i valori non possono resistere e debbono lasciar spazio ad una sua forma originaria, la libertà. Allora quella "viva necessità" di cui lei parla, risulterà per quello che è veramente, perché la necessità non può esser né viva né morta, ma semplicemente è, se è vera necessità. In lei, come storico, trapela una dimensione, quella decisiva per il nostro tempo, della "decisione". Si tratta di decidere, dice.

ID62672 - 22/11/2015 09:49:42 - (Dru) -

Ma appunto, la decisione si fonda sulla "libertà" e la libertà si fonda sulla "distruzione" "creazione", due parole che hanno la stessa anima. Se siamo liberi di distruggere e costruire ciò che per noi ha valore in un dato momento, perché dovrebbero i valori trarne una sorte diversa?

ID62673 - 22/11/2015 09:56:59 - (Dru) - La cultura

la cultura è l'organo di trasmissione di ciò in cui veramente crediamo. E siccome noi crediamo nella libertà, e quando dico noi dico tutti, in quanto i tutti sono un derivato della conquista del pensiero Occidentale su tutte le genti di questo mondo, allora ci sentiamo artefici del nostro destino, anche quello che ci fa più paura. Artefici significa costruttori, si che nel scegliere i materiali di costruzione avremmo potuto scegliere meglio o peggio, mondi diversi allora di quello in cui viviamo. Potenza appunto. La nostra è la cultura della potenza.

ID62674 - 22/11/2015 10:00:40 - (Dru) - E se noi possiamo

allora sentiamo che possiamo cambiare i nostri destini. Siamo noi artefici di quanto vediamo, tocchiamo, sentiamo. Questo modo di disporsi della nostra cultura deriva dalla persuasione che le cose possono diventare altro e noi possiamo farle diventare altro. La vera follia alla base del concetto di guerra.

ID62675 - 22/11/2015 10:05:56 - (Dru) - L'anima della libertà

Lei dice della ribellione della resistenza ai conformismi, ma poi detta una serie di conformismi, capisce che è contraddittorio?

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