10 Luglio 2015, 18.00
Lavenone
La nostra storia

La decadenza della Serenissima, Napoleone e qualche curiosità lavenonese

di Guido Assoni



Condensare in poche righe gli avvenimenti che si sono succeduti sul territorio valsabbino nel biennio 1796/1797, non è affatto agevole, come d’altro canto, estrapolare i fatti avvenuti a Lavenone senza perdere di vista il contesto generale.

Il tenace perseguimento di una politica conservatrice e neutrale, il non aver saputo fornire una efficace reazione agli ideali di libertà e uguaglianza propugnati dalla Rivoluzione Francese, affrettò l’inesorabile declino della Repubblica di Venezia.

Il podestà di Brescia – Giovanni Alvise Mocenigo soleva ripetere: “il leone si è addormentato e quando si sveglierà non troverà più le sue ali sul dorso, né il suo libro fra le zampe e non sarà più il Leone di San Marco”.

Solo la cultura raggiunse ancora livelli molto elevati in tutte le sue manifestazioni: l’arte con il Tiepolo e il Canaletto, la letteratura con Goldoni e Gozzi e la musica, basti pensare a Vivaldi, Scarlatti, Tartini, Porpora e altri ancora.
Dopo una serie di estenuanti e cruenti battaglie contro la coalizione austro-sarda, annientata in due settimane, e quindi contro l’impero austriaco, culminato con la caduta della roccaforte di Mantova (02/02/1797), la Campagna d’Italia delle armate francesi di Napoleone, volse al termine.

Le valli bresciane, patirono la prepotente presenza degli eserciti belligeranti.
Dovettero subire la crudele quotidianità della guerra sottoforma di requisizioni e vettovagliamenti da parte delle truppe, di profanazione di luoghi di culto, di razzie di ogni genere, di saccheggi e incendi, di devastazione di campagne e di imposizione di nuovi balzelli.
Tutto questo avvenne entro i confini della Repubblica di Venezia il cui governo manteneva uno stato di neutralità o meglio di sottomissione nei rapporti diplomatici con le potenze straniere.

Nel frattempo gli obiettivi del generale Bonaparte si spostarono verso lo Stato Pontificio e culminarono con il trattato di Tolentino (19/02/1797) imposto al papa dopo l’invasione della Romagna da parte delle truppe d’oltralpe.
Per ottenere la cessazione delle ostilità, Pio VI dovette sottoscrivere un trattato capestro che aggravava le clausole del precedente armistizio di Bologna.

Oltre alla cessione alla Francia di tutti i territori pontifici a nord di Ancona, il papa dovette rinunciare alla città di Avignone e concedere il diritto di entrare in tutti gli edifici sia essi privati, pubblici o religiosi, per sottrarre opere d’arte a favore dei musei di Parigi.

In questo clima politico generale, alcuni notabili ed illuministi bresciani che nutrivano simpatie per le seducenti massime della Rivoluzione francese e la filosofia di Jean Jacques Rousseau giurarono di “vivere liberi o di morire” ed il 18/03/1797 diedero vita al governo provvisorio della Repubblica bresciana, con concreto appoggio della Francia.

I valligiani, alieni da tendenze illuministiche e filosofeggianti, preoccupati di salvaguardare le loro proprietà e i loro privilegi (per esempio l’abolizione dei dazi sull’approvvigionamento del sale, della legna da ardere e dei materiali ferrosi per il funzionamento dei forni fusori e delle fucine) con azioni meno demagogiche e più concrete, giurarono fedeltà alla Repubblica di Venezia riconosciuta come legittimo sovrano.
Non dimentichiamo anche l’opera di persuasione da parte del clero rimarcante gli aspetti antireligiosi e anticristiani della Rivoluzione di Francia.

E fu guerra civile cui il fuoco dei cannoni francesi in appoggio dei rivoluzionari bresciani (i cittadini come venivano identificati in contrapposizione dei valligiani o paesani) ebbe il sopravvento sugli insorti valsabbini.
Il successivo trattato di Campoformio, tra Francia ed Austria, firmato il 17/10/1797 decretò la fine della gloriosa Serenissima ed il riconoscimento della Repubblica Cisalpina comprendente tra l’altro la ex Lombardia austriaca con Bergamo, Brescia, Crema, Mantova e Peschiera.

Chiusa la parentesi storica di carattere generale, vorrei soffermarmi ad elencare alcuni fatti d’arme e curiosità che riguardano il paese di Lavenone e i suoi abitanti.
Dopo aver respinto il massiccio attacco delle truppe austriache in due separate battaglie a Lonato (02-03 agosto 1796) e a Castiglione delle Stiviere (05/08/1796), le truppe francesi rimangono in valle mentre quelle austriache si ritirano a Rovereto lasciando un’avanguardia di un migliaio di uomini e qualche pezzo d’artiglieria pesante alla Rocca d’Anfo.

Nel pomeriggio del 10 agosto 1796, una colonna francese composta di circa 12.000 fanti agli ordini dei generali Sauret e S. Hilaire arriva a Lavenone.

Ricorda il Riccobelli nelle sue Memorie: “Giunta grossa divisione al comune di Lavenone, venne cercata una sicura guida del cammino già disegnato. A caso trovavasi in sulla piazza Stefano Lorandi.
Era questi antico alfiere della Valle, o porta-bandiera de’ soldati comunali, denominati allora cernide, uomo prosperoso, di modi aperti e prontissimo di animo: il quale, fatte alcune parole col generale si mise con esso lui in viaggio, e giunti con la truppa al ponte del vicino torrente Abbioccolo, poco discosto di Lavenone, il generale S. Hilaire con un grosso battaglione fece alto, lasciando proseguire la marcia per Anfo al maggiore nerbo della schiera guidata da generale Sauret.

Quindi S. Hilaire trasse dalla sua tasca una piccola carta topografica, ed esaminatala, disse alla guida: “Ebbene ora additatemi il sentiero che per que’ monti, che si alzano alla parte destra della valle a noi rimpetto, conduce al di dietro della rocca d’Anfo”. La guida rispose: “Signore, io sono vecchio del mio natio paese, e conoscitore di tutte queste montagne e dei loro sentieri, né conobbi esservi per quella parte il sentiero di cui mi cercate.

Si può bensì per quella ripida ed alpestre china pervenire al di sopra della rocca, e discendere non lungi da quella in sulla strada che mette al Trentino, ma vincendo le maggiori difficoltà”. E il generale: “Andiamo, andiamo, disse, che la troverò ben io, poiché fu fatta anche dall’armata savojarda nel 1735”.
E così dicendo, come asserivami il sopra nomato Lorandi, fece avviare la truppa per quelle discoscese rupi e per quei valichi”.


Il 16 agosto 1796 il generale Napoleone arriva a Lavenone.

Ricorda il Riccobelli: “In sullo spuntar del giorno si misero tutti in marcia, e fecero alto a Lavenone.
Il generalissimo smontò verso le nove del mattino alla casa signorile di Pietro Roberti, non senza sorpresa di lui, e ivi sostò a riposarsi, ed egli e il suo numeroso stato maggiore vi pranzarono, facendo al padrone di casa molte e minute ricerche sul nostro governo veneto, e se di quello il popolo si trovasse contento.
Appena finito il desinare, in tutta fretta levossi da tavola ripetendo, mon cheval, mon cheval, tout de suite, tout de suite, e come vento prese la strada per Anfo, e col suo seguito recossi a visitare l’accampamento di Storo
”.

Dopo aver dato ordine di demolire la Rocca d’Anfo, quantunque proprietà di uno Stato neutrale, Napoleone torna a Lavenone.

Conclude il Riccobelli: Sulla sera del sedici agosto al suo ritorno scelse per alloggio la bella ed ampia casa Gerardini in Lavenone, e tutta la cavalleria prese campo nel prato Chiusura a quella attigui e di rimpetto, non senza prima avere qua e là appostate le opportune scolte.
Pria di coricarsi si assise il generalissimo presso una finestra della sala, e ai padroni di casa fece le stesse ed altre ricerche che la mattina fatte aveva al Roberti, aggiungendo di più che il governo de’ Veneziani era divenuto ormai troppo vecchio”.


Intanto il nuovo governo instauratosi a Brescia si preoccupa di dare un assetto giuridico alla Provincia e spedisce alcuni deputati in valle affinchè facciano opera di persuasione, in maniera democratica, nei confronti dei valligiani.
In Valle Sabbia viene mandato Pietro Randini, ricco commerciante di sete, originario di Barghe e Uberto Uberti di Lonato.

La propaganda di questi diplomatici viene osteggiata in maniera radicale da Don Andrea Filippi di Barghe per via di vecchie ruggini familiari e così il Randini e l’Uberti devono ritornare in fretta e furia a Brescia senza aver adempiuto alla preposta missione.

Molto indicativo un passo sempre del Riccobelli: “Il Randini pertanto alla mattina del 25 di marzo, … di buona ora montò col suo compagno a cavallo dirigendosi a Vestone per scandagliare l’animo massimamente delle principali famiglie di quel paese, e pel medesimo scopo si recò pure a Lavenone; ma n’ebbe da tutti in risposta prudenziale, che per parte loro sarebbero stati tranquilli, e che tutto dipendeva dall’opinione del popolo non tanto facile a persuadersi e dalle  evenienti circostanze.

Il Filippi intanto, infuriato contro gli emissari de’ rivoltosi, mandò quattro cinque de’ suoi bravi ad imboscarsi sopra la strada di Valle nelle così dette Lavi di Barghe, coll’ordine che nel ritornare a Barghe del Randini, che già sapea che in sulla sera sarebbe ritornato, gli scaricassero contro una salva d’archibugiate, e colà il massacrassero.

Ma tale crudele divisamento fu a tempo scoperto, sì che e altri ne diede tosto espresso avviso al Randini medesimo, il quale lo ebbe nel momento che trovavasi a pranzo nella famiglia Gerardini a Lavenone.
Immantinente fece egli allora allestire i cavalli, e scortato da alcuni armati, di galoppo giunse a Nozza, e in vece di recarsi, come avea divisato, a Barghe, a spron battuto prese la strada di Casto e portossi a Gardone, e in sulla sera pervenne tutto ansante a Brescia infausto apportatore di quanto avea incontrato
”.

Il 27 marzo 1797 si riunisce a Nozza il Consiglio Generale.
Tanta è la folla che il consesso si tiene nel prato Zentilini, situato alle porte del paese, presso l’attuale cimitero, anziché nell’angusta “Casa della Valle”.

Alle grida di Viva Marco, viene decisa una controrivoluzione per scacciare i ribelli del legittimo sovrano, la Repubblica di Venezia.
Viene steso un proclama dal Sindaco Antonio Turrini da Livemmo da consegnare al principe di Venezia come atto di fede e di sudditanza del popolo valsabbino.

Nel frattempo viene ordinato al fante di Valle, l’attuale messo o cursore, di staccare tutti gli stemmi con il leone di San Marco, dai proclami del pubblico archivio e di dispensarli ai presenti affinché vengano apposti sui propri copricapo.
Dunque un vero e proprio saccheggio dell’archivio di Valle.

Il Console (titolo equivalente all’attuale Sindaco) di Lavenone, Bartolomeo Festa, si offre di consegnare personalmente il proclama al Principe in nome della fedelissima Valle e di riportare quindi la risposta.

Ancora il Riccobelli:
E siccome, giusta lo stabilito nel detto consiglio, spedire doveasi a Venezia il portatore del sopra trascritto memoriale, ad umiliarlo al veneto principe, così il 28 marzo partì appunto per quella metropoli il console o reggente comunale di Lavenone, che era un certo Bernardino Festa, insieme con un compagno, Girolamo Pedrali, muniti anche di commendatizia particolare per presentarsi al principe ed a quella signoria, ed avere chi per essi parlasse.

Dalla parte del lago intrapresero i detti messi il divisato viaggio, e giunti a Verona si presentarono con credenziale del sindaco al provveditore straordinario S.E. Battagia colà residente; indi il 30 marzo continuarono il cammino per Venezia, muniti della seguente carta di via, che il detto provveditore lor volle rilasciare in segno della sua soddisfazione:

Noi FRANCESCO BATTAGIA
Provveditor straordinario in Terra-Ferma
Che sia commesso qualunque mastro di posta di somministrare gli occorrenti cavalli a Bernardino Festa console di Lavenone, e Girolamo Pedrali suo compagno, che passano alla Dominante; lo stesso sia commesso in caso di bisogno alle comuni.
Firm. Francesco Battagia Provv. Estr. in T.F.
Rocco Sanfermo, Segret


Giunti a Venezia, furono presentati alla signoria e al doge, raccolti appositamente nella sala d’udienza, da Carlo Pasinetti di Venezia, che eloquentemente parlò per loro, e queglino pure in loro rozzo linguaggio espressero il fedelissimo amore de’ valsabbini al loro principe, e rimbombò la sala di viva s. Marco, con emozione la più grata di que’ patrizi e del doge, al quale venne umiliato il memoriale del sindaco di Valle. Il giorno appresso, 5 aprile, lasciarono la metropoli per ritornare in Vallesabbia col rescritto del principe, che a lettera qui trascrivo:

LODOVICUS MANIN Dei gratia Dux Venetiarum etc.
Al Sindaco diletto nostro della Vallesabbia.
Accolte con particolare soddisfazione le proteste di suddito attaccamento e di affetto fatte alla Signoria Nostra dal Console di codesta Valle fedelissima, Bernardino Festa, e dal suo compagno Girolamo Pedrali, colla voce del fedel Carlo Pasinetti, le abbiamo con compiacenza riconosciute analoghe e corrispondenti alla costante divozione verso il pubblico nome già col fatto manifestata da codesta amatissima popolazione.
Ritraendo da ciò una nuova prova dei sentimenti che si nutrono a nostro riguardo da codesto fedelissimo Corpo, non possiamo trattenerci dal rinnovare le espressioni più vive del Nostro aggradi mento e riconoscenza, riconfermando pure colla maggior pienezza quelle già significate nelle precedenti Nostre Ducali.
Data in Nostro Palatio Ducali 31 martii, Indictione 15.
Andrea Alberti Segret.


Viene così costituito un esercito valsabbino e nominati i generali in campo nelle figure del prete Andrea Filippi di Barghe e di Giambattista Materzanini.
Al fratello di questi, Francesco, viene conferito il grado di generale di brigata, mentre Jacopo Comparoni di Vestone viene eletto come aggiunto conferente allo stato maggiore.
Nei diversi comuni vengono nominati i capitani.
Per Lavenone è stato preposto Stefano Lorandi detto Ghebba, nostra vecchia conoscenza.
La repressione francese dopo i fatti di Salò è spietata.
Saccheggi, frustrazioni, profanazione di Chiese, incendi di civili abitazioni, devastazioni, distruzioni non risparmiano i paesi di Barghe, perché patria del Filippi, Nozza quale centro dell’insurrezione e Vestone, per essere stato la residenza del quartier generale valsabbino.

A proposito di Lavenone, ricorda il Riccobelli: “Quella devastatrice schiera si mosse per Lavenone, che trovò, come gli altri paesi, vuoto di abitatori. Ivi diede lo stesso sacco, e incendiò venti e più case, tra le quali tutto il vasto palazzo de’ Gerardini da poco tempo edificato, con tutti i beni mobili di cui era fornito”.

Oltre a Pietro Roberti e alla famiglia Gerardini, facoltosi casati locali dell’epoca, abbiamo parlato dell’alfiere di valle, Lorandi Stefano detto Ghebba che fu condannato in contumacia dal nuovo governo e che dovette emigrare nel vicino trentino, di Girolamo Pedrali compagno del console Bartolomeo Festa, anche lui poi condannato a due mesi di prigione con le seguenti motivazioni riportate dal Riccobelli:

“Libertà, - Virtù – Eguaglianza.
In nome del sovrano popolo Bresciano
La Commissione Criminale straordinaria
Ha sentenziato che Bartolomeo Festa di Lavenone retento, sia condannato due mesi prigione a die redentionis, e ciò per ogni suo eccesso, come da processo, ….
Brescia, 26 agosto 1797 V.S. Anno 1° repubblicano.
Firmato BENEDETTI FENAROLI
Benedetto Salvi Segret.

Manca all’appello una nobile figura dell’ insurrezione valsabbina, Don Giuseppe Cattazzi.
Nato a Navazzo di Gargnano nel 1721, fa l’ingresso come parroco di Lavenone il 16 aprile 1761.
Dopo dieci anni, esattamente il 24/081770 è promosso a Bagolino, quindi viene nominato arciprete di Vobarno il 15/04/1772.
Viene fucilato a Salò il 30/05/1797 dai francesi perché aveva benedetto le bandiere dei valsabbini ed incitato, dal pulpito, il popolo alla rivolta contro la Repubblica Bresciana.

Guido Assoni


Commenti:
ID59095 - 10/07/2015 19:40:26 - (maurizio) - Bravo Guido

Mi fa molto piacere leggere sella storia della Valle cosi ben documentata.

ID59106 - 11/07/2015 16:46:55 - (Leretico) - Molto bravo

mi piace sempre leggere della nostra storia. Grazie

ID59136 - 13/07/2015 00:01:51 - (Dru) - grazie

...

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