17 Giugno 2015, 18.21
Lavenone
Terza pagina

Le fucine di Lavenone

di Guido Assoni

Prendo lo spunto dalla sensibilità del corpo docente della scuola primaria di Lavenone che, in occasione della tradizionale “Festa degli alberi”, quest'anno ha fatto visita, con le scolaresche alla fucina del rame sul fiume Abbioccolo


Il “Catastico della Città di Brescia et suo territorio” redatto nel 1609 da Giovanni da Lezze, è un documento molto dettagliato che comprende, oltre agli estimi catastali, il numero e la produttività dei mulini, delle fucine e delle locande, tracciando così un quadro completo dell’economia bresciana del tempo.

A proposito di “Lavinone” si legge: “In colina di sopra Vestone per tre miglia situato in bellissima prospettiva verso la Riviera di Salò confina con la Pertica, con Vestone, con Idro et con Treviso di Riviera ha fuoghi 200. Anime 800 de quali 170 utili. Un forno da ferro, che può lavorar tre mesi dell’anno et può consumar 30 bisache di carbone al giorno. Sei fusine grosse, nelle quali si lavorano ogni sorta di ferramenti. La maggior parte di questi uomini sono buoni maestri da lavorar ferri. Vanno continuamente fuori a lavorar nelle fucine parte in terra tedesca, in Schiavonia, in Labrucio, Romagna, Florenza, Parma, et altri luoghi, perché non hanno trattenimento sul stato, et a casa non vi restano se non le donne…”.

Per secoli la produzione manifatturiera dell’Alta Valle Sabbia
è stata monopolizzata dal comparto minerario metallurgico: le ampie distese boschive, le abbondanti disponibilità d’acqua e le vene minerarie (siderite) della vicina Val Trompia, permisero il sorgere ed il consolidarsi di una solida e diffusa metallurgia.

Commentando il catastico del Da Lezze possiamo con certezza affermare che agli inizi del 1600 il forno di Lavenone fondeva minerali di ferro che veniva acquistato appunto in Val Trompia e, con carri trainati da buoi, trasportato in Valle Sabbia attraverso il passo della Cocca di Lodrino.

Ubicato in riva al Chiese, in località Maer, lavorava tre mesi all’anno per la necessità di approvvigionamento del minerale e del carbone di legna che serviva per la fusione.
Dal forno, il ferro greggio, o crudo come veniva chiamato, passava per la lavorazione  alle fucine. Le due maggiori sorgevano in località Grazze, sulla riva sinistra del fiume Chiese ai confini tra Idro e Lavenone ed erano famose intorno agli anni 1618/1620 per la fabbricazione di palle d’artiglieria.

Altre due fucine, dette “del Foll o del Follo” (attuale località Scolari) sorgevano sempre sul fiume Chiese, a poca distanza da quelle di Grazze. Il loro nome deriva probabilmente da una fabbrica di panni preesistente situata in loco.
Le ultime due si trovavano sul fiume Abbioccolo che scende da Vaiale, una poi riconvertita nei primi anni del 1900 a fucina del rame, l’altra che si chiamava “Fusinetto” sorgeva poco oltre il ponte di Agro.

E’ ragionevole pensare che questi impianti fossero sorti dopo il 1300 anche se le fucine di ferro azionate dall’acqua, come organizzazione ed attrezzamento, risalgono all’epoca romana, in quanto i termini che venivano usati dai fucinieri sono tutti derivati dal latino.
Le disposizioni autarchiche imposte dalla Repubblica Veneta fecero emergere i primi sintomi di una lunga crisi che perdurò nei secoli successivi con serie conseguenze anche per l’economia generale.

La limitata esportazione e la diminuzione di domanda del mercato interno
determinarono l’esodo dei maestri nell’arte del ferro, chiamati docimastri o focimastri (maestri del fuoco) che emigrarono a Venezia, a Milano, in Germania, in Danimarca, in Croazia e Serbia, ovunque ricercati e accolti come l’aristocrazia della mano d’opera siderurgica e lautamente remunerati.

La famiglia Glisenti, originaria dalle Valli Giudicarie, nel 1832 potenziò le fucine di Grazze avendo installato nei pressi, due anni prima, una segheria. Probabilmente il legname veniva condotto sul fiume formando degli enormi zatteroni guidati con abilità dall’uomo.
Nel 1855 sul territorio di Lavenone si contavano ancora quattro fucine, tre appartenevano a Maffeo Gerardini ed una ai Fratelli Glisenti.
Bortolo Glisenti e successivamente il figlio Angelo seppero dare impulso al progetto della rinomata industria metallurgica bresciana, creando il forno a “la comptoise”, una novità per la nostra valle, affidandone la direzione al maestro Bornier, di nazionalità francese, poi stabilitosi e morto a Idro.
Questi seppe far fronte alla concorrenza potenziando gli impianti con altre trafile quando si dette inizio alla costruzione di lamiere cilindrate in luogo delle lamiere al maglio.

La ferriera Glisenti, il 24 luglio 1876
ebbe l’onore della visita dell’On Giuseppe Zanardelli e del Ministro della Marina, Benedetto Brin, diretti ad Anfo per esaminare gli imponenti lavori della Rocca, ripresi per ordine del governo italiano.
Purtroppo una rovinosa inondazione del fiume Chiese avvenuta il 15 settembre 1882 demolì gran parte della struttura. I danni furono ingenti e risarciti solo in minima parte, il che convinse i Glisenti a potenziare lo stabilimento che intanto avevano installato a Carcina cedendo i relitti della ferriera di Grazze alla ditta Mutti di Gardone Val Trompia.
L’impianto, con maestranze ridotte sopravvisse fino ai primi anni venti del 900 quando fu spazzato via da un’altra drammatica inondazione del fiume.

Bisogna tener presente che solo nel 1934 furono eseguiti lavori di regolazione del lago d’Idro.
Se ai Glisenti furono fatali gli avversi fenomeni atmosferici, ai Gerardini fu letale il non saper far tesoro delle conquiste tecniche, continuando a trascinarsi con sistemi consuetudinari anziché seguire, seppur con le dovute cautele, il progresso tecnico della fine 800.
Infatti, mentre la Valle Sabbia accresceva potenza e prestigio nonchè grande fiducia nel futuro grazie alla fondazione, nel 1868,  delle ferriere di Vobarno, si spegnevano inesorabilmente la ferriera Glisenti di Lavenone ed il forno di Vestone. Rimaneva il solo forno di Bagolino travolto poi dalla piena del Caffaro del 1906.

Oltre agli eventi calamitosi, molto frequenti a ridosso del lago d’Idro ed al mancato adeguamento delle strutture alle nuove tecnologie della rivoluzione industriale, non dobbiamo dimenticare un terzo fattore che portò inesorabilmente alla decadenza del settore metallurgico a Lavenone.

Ho dapprima accennato alle disposizioni autarchiche imposte dalla Serenissima, ma furono il governo austriaco e piemontese a dare il colpo definitivo alla siderurgia lombarda.
Le condizioni economiche, infatti, furono rese difficili a far tempo dal 1853 con l’introduzione dell’imposta prediale in Lombardia per cui i proprietari di boschi della Valle Trompia e della Valle Sabbia pagavano assai di più della rendita reale.

La tassa per il taglio dei boschi, introdotta con Decreto del 28/09/1811 lievitò in maniera esponenziale nel corso dell’anno 1853 sotto il governo austriaco.
Un esempio significante è costituito dal Comune di Anfo che di prediale nel 1852 pagava 123 lire per i suoi boschi, mentre l’anno successivo ne doveva pagare ben 1423. Il deprezzamento della legna causato dalla cessata protezione dell’industria ferriera fece il resto.
Il protezionismo austriaco quindi favorì l’affluenza dei prodotti siderurgici austriaci nel Lombardo Veneto aprendo così ampi squarci nel settore metallurgico lombardo.

I dazi a carico dei prodotti della storica industria siderurgica lombarda
, applicati dal governo austriaco e poi dal Piemonte a seguito dell’annessione della Lombardia, connessi all’importazione estera sancita dai trattati, affrettò la decadenza della produzione siderurgica lombarda.
A Lavenone infatti, i Gerardini chiusero la fucina sull’Abbioccolo adibendola a magazzino di carbone e ridussero drasticamente le maestranze.

Vorrei concludere questo breve accenno sulle fucine di Lavenone nello stesso modo con cui l’avevo introdotto, ovvero riportando un brano, tratto questa volta dalla Guida Alpina della Provincia di Brescia, considerazioni, come vedrete, di segno diametralmente opposto rispetto a quelle del Da Lezze.

“Lavenone (Lavenù) è comune con 736 abitanti posto su collina con bellissima prospettiva ad una altezza dai 321 metri ai 375.  Nei tempi di mezzo, Lavenone, avea forno fusorio, ed era celebre pei suoi maestri nel lavorar ferro, che andavano in Germania e Schiavonia ed in molte parti d’Italia, oggi non gli resta che la fabbrica di polenghini alla romana e seghe di legnami.
E’ posto sul Keuper, e poco lungi evvi la dolomia.
Il Keuper fornisce quivi arenarie e conglomerati (gri) utilizzati per pavimenti, e come pietre refrattarie e da affilare. La dolomia fornisce un bel marmo nero simile al Varenna, ma finora poco utilizzato”
.

Guido Assoni

Testi consultati
Catastico della Città di Brescia et suo territorio – Giovanni Da Lezze – 1609;
Valle Sabbia e Riviera – toponomastica e qualche balla – Natale Bottazzi – 1956
L’arte del ferro in Valle Sabbia e la famiglia Glisenti – Ugo Vaglia – 1959
Guida Alpina della Provincia di Brescia – Club Alpino Italiano – 1889
Storia della Valle Sabbia – Ugo Vaglia - 1970




Commenti:
ID58593 - 18/06/2015 14:00:18 - (guidoassoni) -

Oltre ai riferimenti bibliografici indicati in calce è doveroso annoverare anche il testo "Viaggio all'interno di Lavenone", curato dall'Amministrazione comunale di Lavenone e scritto da Michela Bonardi e Gian Fausto Salvadori, risalente al 1994. Si tratta dell'unica pubblicazione organica e completa legata a Lavenone. Me ne scuso con gli autori.

ID58700 - 22/06/2015 18:49:23 - (Leretico) - Il racconto del passato

Mi ha fatto piacere scoprire le notizie che qui hai raccolto con indubbia capacità narrativa. Serve sapere da dove veniamo e come eravamo. Grazie per questo lavoro.

ID58738 - 24/06/2015 13:14:10 - (Dru) - De quali 170 utili

Leggo con piacere questi eventi storici locali che rimettono la loro esistenza a condizioni politiche, geografiche e, innanzitutto, tecniche. Il motivo (o senso) di queste condizioni fonda la sua esistenza proprio sul concetto di utilità. Ogni evento risulta utile per un altro evento, se riferito alla ragione della propria esistenza. La condizione dell'esistenza è propria dell'utilità.

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