09 Settembre 2013, 06.54
I racconti del lunedì

A perdifiato

di Ezio Gamberini

«Fino ai quarantotto anni la mia professione è stata quella del maratoneta e in nove anni ne ho corse diciannove: Milano, tre Carpi, due Reggio Emilia, nove edizioni della stupenda Maratona Internazionale del Custoza...»

 
... e all’estero Atene, Lisbona e due edizioni della mitica ed imperdibile Maratona di New York (1999 e 2004). Vabbè, ho ininterrottamente coltivato anche un hobby, quello dei lavoretti d’ufficio, che mi ha sempre occupato otto o nove ore ogni giorno, per quasi trecento giorni l’anno, e che provvidenzialmente mi ha fornito il necessario per vivere.

I miei personaggi e le mie storie sono nati principalmente sui sentieri che costeggiano il fiume, da Vobarno a Sabbio Chiese, passando per Clibbio, nel percorrere i dodicimila chilometri che ho macinato per preparare le mie maratone.
Sono stati loro a entrare nella mia penna, e allora è stato sufficiente intingere il pennino del cuore nell’inchiostro dell’anima, e tutto è venuto da sé.

Non posso dimenticare l’emozione provata quando ho tagliato il traguardo della mia prima maratona.
Sei mesi per prepararla, lasciando per strada quindici chilogrammi e due taglie. Era marzo e la notizia bomba si propagò in un  baleno: “ A novembre correremo la Maratona di New York!â€. Io, alla soglia dei quarant’anni, dopo diciassette di assoluta inattività atletica, avendo smesso di essere un calciatore di buon livello a ventitré anni a causa di un infortunio ai legamenti di una caviglia, pensavo che sarebbe stato più facile andare sulla luna. Invece, non so come, scattò qualcosa di incomprensibile e cominciò la sfida con me stesso…
Non avevo mai corso prima quarantadue chilometri a fila (l’allenamento più lungo era stato di trentacinque), e quando entrai in Central Park, dopo aver attraversato tutti e cinque i distretti di New York ( Staten Island, Queens, Brooklyn, Bronx e Manhattan), e vidi la in fondo lo striscione dell’arrivo, fu come se avessi vinto: fui pervaso da una felicità indescrivibile, che si conservò inalterata per i giorni seguenti.
Ero un maratoneta!

Ricordo che quando ci trovavamo sulla cima di una delle due Torri Gemelle, a quattrocentoventi metri di altezza, si provava la sensazione di essere i padroni del mondo, invincibili; quanta pena, cinque anni dopo, nel visitare la voragine, chiamata Ground Zero, dove prima svettavano i due grattacieli!

In Grecia invece corsi “la†maratona per eccellenza: partenza da Maratona, appunto, che dista circa quaranta chilometri da Atene, e arrivo al leggendario stadio Panathinaikos, costruito interamente in marmo, sede delle prime Olimpiadi moderne del 1896.
Non riesco a descrivere cosa provai al momento dell’ingresso nello stadio: sicuramente, come intensità, le stesse che vivrà Stefano Baldini quattro anni dopo (2004), quando taglierà il medesimo traguardo conquistando la medaglia d’oro olimpica.
E davanti al Partenone, rimirando l’opera dell’uomo ancora integra dopo duemilacinquecento anni, nel mio cervello s’insinuerà una certezza, simile a quella manifestata l’anno precedente quando toccai con mano il modulo lunare dell’Apollo 11 che traghettò il primo uomo sulla luna, al museo dello spazio di Washington: con riferimento al genere umano, pensai che “Non siamo proprio così imbecilli!â€

Venticinque giorni dopo corsi la prima edizione della Maratona di Milano. Un disastro, a livello organizzativo: noi amatori “lenti†bevemmo il primo sorso d’acqua al ristoro del ventesimo chilometro, perché tutti i rifornimenti del quinto, decimo e quindicesimo chilometro erano stati “saccheggiati†da chi ci aveva preceduto!

Le maratone di Carpi erano di solito valevoli per il titolo di campione nazionale, con la partecipazione di grandi atleti, e la RAI trasmetteva in diretta gli eventi. La partenza era di fronte alla "Galleria del vento", l'avveniristica sala prove dello stabilimento Ferrari, a Maranello, e l’arrivo nella stupenda piazza di Carpi. Proprio qui nel 1985 il due volte campione italiano e campione mondiale a squadre, l’amico Osvaldo Faustini, di Villanuova S/c, conquistò il suo primo titolo nazionale che bissò l’anno successivo, questa volta a Roma.

A Reggio Emilia successe una cosa davvero curiosa: con Grazia partimmo il sabato pomeriggio, pernottammo in un hotel del centro e terminata la maratona, nel tardo pomeriggio di domenica ritornammo verso casa, dopo aver prelevato l’autovettura che avevamo parcheggiato nel garage dell’hotel.
Trascorsi alcuni minuti, ci accorgemmo che qualcosa di strano era successo: un odore tremendo aveva invaso l’abitacolo. Il silenzio che seguì per alcuni istanti fu forse dettato da una sorta di timore reverenziale di entrambi: la causa era forse dovuta all’altro? Poi, all’improvviso, ebbi una rivelazione, e mi picchiai la mano sulla fronte: “Scemo, il sacco dell’immondizia!â€.
Lo avevo caricato nel baule il sabato mattina, convinto di liberarmene prima della partenza per Reggio, ma poi me ne dimenticai, come succede spesso. “Grazia, ti prego, che resti tra noi, altrimenti ci facciamo una figura da rinco…!â€.
E così lo seppero soltanto i miei due lettori, e voi, cari amici che mi leggete su ValleSabbianews, ne sono certo, non lo direte a nessuno.

Lisbona è una città meravigliosa, con i suoi caratteristici tram variopinti, il Barrio Alto, Alcàntara, le magnifiche ceramiche, la ginjinha (tipico liquore simile allo sherry) offerta a ogni angolo di strada, ma soprattutto terra natale di uno dei più grandi scrittori del novecento: Fernando Pessoa, la cui statua si può ammirare in una piazza del centro.
Anche qui l’arrivo della gara, dopo aver costeggiato per venti chilometri la sponda del fiume Tago, così immenso da sembrare già oceano, in cui invece affluisce a qualche chilometro di distanza, è stato davvero commovente.
I compagni di viaggio che non avevano corso erano assiepati sulla tribuna e mi hanno tributato un applauso che mi ha fatto venire la pelle d’oca, e mi ha indotto ad amare ancor di più questo “porco†mestiere del maratoneta che ti obbliga a passare il tempo lungo le sponde del fiume per allenarti, anziché poltrire sul divano guardando la TV!

Ho lasciato per ultimo le maratone del Custoza, perché le ritengo il non plus ultra per un amatore: partenza e arrivo nel meraviglioso parco di Villa Venier, a Sommacampagna, luoghi incantevoli incontrati sul percorso (il parco di Valeggio sul Mincio, l’incantevole Borghetto, il lungo Mincio, i luoghi del Risorgimento italiano, ristori fornitissimi e puntuali, l’ultimo dei quali all’interno del parco di una magnifica villa veneta…), ma soprattutto l’attenzione dell’organizzatore, l’amico Simone Lamacchi, nel curare i dettagli che contano per un amatore: accoglienza straordinaria, assistenza continua ed un pranzo finale davvero superlativo per tutti i partecipanti.
 
Anche un maratoneta amatore dal livello tecnico modesto, quale ero io, in quelle manifestazioni si sentiva protagonista e ogni anno tornava, portando altri amici e incrementando esponenzialmente il numero degli atleti al nastro di partenza; nella diciannovesima e ultima maratona della mia vita, l’edizione numero nove di Custoza, con la partecipazione di oltre novecento maratoneti, l’organizzatore ha voluto premiare la mia fedeltà alla manifestazione e mi ha assegnato il pettorale numero uno!
 
Allo sparo dello starter sono partito come un razzo e sono stato in testa fino al trentanovesimo… metro, vabbè, perché poi sono scoppiato, a quei ritmi! Dopo metà gara si usciva da Valeggio e si percorreva per alcuni chilometri il lungo Mincio, placido e riposante, e in quelle occasioni inserivo il “pilota automaticoâ€, staccavo il cervello, e mi lasciavo andare ai ricordi, e alle speranze, ripensando alla fortuna che ho avuto nel nascere in una famiglia formata da genitori stupendi e fratelli e sorelle meravigliosi, che non ringrazierò mai abbastanza per avermi permesso di crescere serenamente.
E poi all’oratorio, da adolescenti, Grazia ed io cominciammo un viaggio, che dura ormai da trentasei anni, di cui trentadue di matrimonio, e durante il tragitto si sono aggregati tre nuovi passeggeri, di cui Grazia ed io andiamo fieri e orgogliosi, ringraziando il cielo ogni mattina per averceli donati.

Voglio chiudere decantando queste terre venete che per undici mesi della mia vita, poco più di trent’anni fa, furono anche le mie, quando feci il militare in un aeroporto che al tempo offriva un volo civile per Roma e per il resto F104 e Tornado che sfrecciavano giorno e notte a trecento metri da dove dormivo…
Dove trovate un’altro posto, e volutamente mi limito al campo enologico, che offre assolute prelibatezze che vanno dall’Amarone al Bianco di Custoza, dal Bardolino al Recioto, dal Soave  al Valpolicella, senza contare i Cabernet e Chardonnay, i Merlot , i Pinot, i Prosecchi….. scusate ma ci si può ubriacare al solo evocarli…

E la gente veneta? Davvero stupenda. Ho avuto la fortuna di conoscere personaggi straordinari. L’Avesani (ho usato un cognome comune veronese, via, non voglio smascherarlo…) era un gran simpatico, ma anche un po’ cane.
Più vecchio di me, ogni tanto in caserma mi diceva: “Te tajo e rue dea machina!â€, quando all’epoca il mio mezzo di locomozione era costituito da una vecchia Bianchi con i freni a bacchetta, che era stata di mio padre.
Mi raccontò che un giorno lui e la combriccola avevano fatto credere a un amico, Folco, gran frequentatore di sacrestie e appassionato “lettoreâ€, ma evidentemente un poco “tardoâ€, che Osea era in realtà un profeta veneto: “Osèa – gli diceva – non senti? Osèa, e più la ‘è’ è pronunciata aperta e più sembra veneto….Osèa, ‘l profeta masa grande….â€.
Una volta che doveva leggere la prima lettura dal libro del Deuteronomio, gli disse di accorciarlo, eliminando le ultime cinque lettere (gli portò l’esempio del Nabuccodonosor: “ Se dize  ‘l Nabucco, no l’Nabuccodonosor….â€).
 
Lasciate che apra una parentesi per raccontare che neppure un caro amico ha scherzato, la sera del venerdì santo, quando leggendo la Passione, arrivato al punto in cui è preparata la sepoltura di Gesù, a Giuseppe d’Arimatea avrebbero dovuto consegnare una mistura di mirra e aloe di cento libbre; invece lesse che “Nicodemo si presentò con cento libbre di mirra e aoleâ€!
L’amico, di cui non farò il nome neanche sotto tortura, si difese, alla fine della funzione, negando tutto alla moglie che lo aveva redarguito: “No, cara Cristina, non è vero, ho detto aloe, non  aole!â€, ma proprio in quel momento, mentre gli amici non lo guardavano neppure negli occhi perché sarebbero scoppiati a ridere, gli passò in parte Marcellino che disse, dispiaciuto: “Poer Gesù, dopo i danni anche le beffe: chisà che spösa de pès en chel sepolcro!â€.
 
Torniamo a Folco. Il parroco del paesino si stupì che quella domenica gli scavezzacollo come l’Avesani e i suoi soci fossero seduti in prima fila, alla messa delle undici.
Quando capì, fu troppo tardi, perché Folco, tutto infervorato, aveva già cominciato a leggere la prima lettura e con la sua bella voce potente, scandì con vigore: “Dal libro del Deutero!†omettendo la parte finale, come gli aveva consigliato l’Avesani.
I cani in prima fila avevano le lacrime agli occhi, ma non cedettero, pure se stavano per scoppiare. Anche il parroco fece una fatica del diavolo per trattenersi dall’esplodere in una risata; alzò impercettibilmente gli occhi al cielo, scosse la testa, ma appena appena, e constatò come non tutte le pecorelle fossero perfette, ma quello era il suo gregge e, da buon pastore, ringraziò il Padreterno per averglielo affidato, consapevole che in ogni modo tutti i salmi, quando escono dal cuore, finiscono in Gloria.


 


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