20 Giugno 2013, 17.00
L'angolo del filosofo

La carriera, l'immaginario e l'immagine

di Alberto Cartella

Il filosofo Alberto Cartella ci conduce dentro una riflessione sulla percezione o meno della realtŕ come costruzione e sul vivere conformemente a un immaginario generalizzato, prendendo ad esempio l'immagine della "donna in carriera"

 
Ho sentito in più di un'occasione che la realtà è che se una donna desidera un figlio l’azienda la mette di fronte ad un aut-aut: o i figli o la carriera! Se questa è la realtà allora bisogna conformarsi a questa realtà?
 
Si arriva ad adeguarsi a questo aut-aut attraverso l'inganno che esso sia qualcosa che non viene messo in discussione, perché così stanno le cose. In questo aut-aut vi è la rincorsa verso l’immagine stereotipata della donna in carriera senza interrogarsi su questo stereotipo e sull’immaginario che la riguarda.
 
Credo sia importante considerare che la donna nella famiglia patriarcale del secolo scorso e la donna manager siano due facce della stessa medaglia: la prima era dedita all'uomo, la seconda fa in modo di adeguarsi a un immaginario legato al mondo manageriale maschile (anch'esso immaginario). In tutti e due i casi la donna dipendeva e dipende dall’uomo e non c’è spazio per un pensiero della differenza sessuale.
 
La realtà alla quale si è fatto riferimento sopra non è altro che una costruzione; questa realtà non viene messa in discussione perché se così stanno le cose non si può fare altro che adeguarsi ad esse. Credo che in controtendenza rispetto a questo movimento ci sia la domanda: ma è così che bisogna continuare ad essere (perché questa è la realtà)? Ma la realtà cos'è?
 
Credo sia importante considerare la realtà come costruzione, come qualcosa che è in trasformazione. Se la si considera come qualcosa di rigido, di statico, al quale bisogna adeguarsi allora anche la costruzione della realtà alla quale si faceva riferimento tiene. Ma la tensione di questa costruzione dipende dai casi e i casi riguardano la giurisprudenza.
 
Credo che adeguarsi alla realtà ingannandosi che la realtà sia qualcosa di diverso da una costruzione sia ciò che ci fa spegnere e rincorrere il già detto, il già sentito e il già stabilito al quale non si fa altro che adeguarsi. Se si è spenti si vive una vita qualunque e a volte le immagini come quella della donna in carriera sono più vive delle persone.
 
Nell’immaginario legato alla carriera ciò che viene fatto è utile per ciò che si farà dopo. Si tratta della concezione del lavoro come posto di lavoro. Si ricopre un ruolo per ricoprire successivamente un livello più alto della gerarchia lavorativa. Questo è un aspetto che rientra nella realizzazione di sé. Ciò che è utile per il ruolo che dovrò ricoprire dopo è ciò che importa, mentre ciò che è inutile e che mi fa perdere tempo deve essere cancellato.
 
La carriera è sempre legata a un punto di vista esterno, cioè a come gli altri mi devono vedere. I vari livelli nella gerarchia lavorativa sono legati proprio a mostrare chi gestisce il potere in un movimento di ammirazione verso di esso, perché è proprio l’ammirazione verso chi gestisce il potere che lo sottrae alla critica.
 
Si tratta di vivere conformemente a un immaginario generalizzato. In questo movimento orientato alla carriera il piacere coincide con l’immagine stereotipata. L’adesione all’immagine stereotipata (logora) della carriera è ciò che mi proietta in vista dell’obiettivo. Mostrare agli altri in generale questa adesione immaginaria è ciò che mi dà piacere. Il godimento passa per l’immagine. Gli altri da un punto di vista esterno devono vedere che sono arrivato.
 
Ciò che mette in crisi la frustrazione e il vuoto totale che subentra in questo movimento di un piacere senza gioia è un intendimento senza obiettivo; si tratta del bisogno di guardare dritto negli occhi ciò che ci desta dall’indifferenza del sorvolo distratto verso l'obbiettivo finale. Si tratta dell’immagine sottratta alla sua funzione. Questo vuol dire che ci sono due vie dell’immagine: sta a me scegliere se sussumere la sua follia sotto il codice civilizzato dell’illusione, cioè dell’assorbimento dell’immagine nell’immaginario; o l’altra via che è quella dell’apertura all’incontro con il reale, il quale si sottrae alla costruzione della realtà, anche se è questa costruzione ad implicarlo.
 
Quest’ultima è la via di una ferita senza consumo, mentre nel primo caso vi è unicamente un consumo delle immagini (l'immagine stereotipata della “donna in carriera” è un esempio di questo caso e si provi a pensare al marketing che gira attorno a questo stereotipo).
 
La ferita senza consumo è nel punto in cui il desiderio coincide con il godimento. L’immagine, sottratta dalla generalizzazione in un immaginario che la rende universale, è un dettaglio, un dettaglio che mi punge. Non si tratta di un dettaglio in rapporto a un universale che lo regola, ma di un dettaglio eccessivo, della pressione dell’indicibile. Ciò che io posso definire non può realmente pungermi. La impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento. L’immagine non sa dire ciò che dà a vedere ed è come se proiettasse il desiderio al di là di ciò che dà a vedere.


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