04 Dicembre 2012, 10.00
Bagolino Valsabbia Val del Chiese Storo
Enogastronomia

Cucina di confine senza confini

di Marisa Viviani

La Ciuga del Banale, i crauti della Val di Gresta, il grano Marano di Storo, il formaggio Bagss: prodotti tipici d'eccellenza per un menu da veri intenditori.

Per chi risiede in zone di confine è facile assemblare un menù che metta insieme il meglio delle produzioni tipiche e della cucina dell'una e dell'altra parte di quella linea immaginaria inventata più per dividere che per unire; ma su questo sorvoliamo, perché con un atto di indisciplina topografica cancelleremo quella linea e faremo di questo menù un florilegio delle tipicità di un'area che è montana prima che bresciana o trentina. Infatti gli ospiti che siederanno alla nostra tavola potranno degustare dei piatti tipici della montagna, nati dalla creatività, e dalla necessità, di genti che nel territorio montano hanno vissuto e hanno tratto conoscenze, insegnamenti, risorse, prodotti unici, eccellenze.

E' il caso ad esempio della Ciuìga del Banale, tipica della zona di S. Lorenzo in Banale, una salsiccia affumicata fatta con carne di maiale e rape. Un tempo prodotto povero per la scarsa presenza di carne che veniva integrata con le rape, disponibili invece in quantità come copiosa produzione agricola dei territori di alta quota: le proporzioni erano infatti 30% carne e 70% rape, rapporto che oggi, in tempi di abbondanza, è invertito. Questo prodotto è un lampante esempio di creatività gastronomica, nascendo dalle dure condizioni di vita dei territori montani e dalla necessità di impiegare al meglio le scarse risorse alimentari; genialità degli avi che i nostri contemporanei tutelano oggi come presidio Slow Food.

La Ciuìga può essere inserita quindi a pieno titolo nel nostro menù, sia cruda come antipasto che cotta come componente di un primo piatto, insieme alle Rape di Bondo, una varietà di rape particolarmente pregiata perché dolce e gradevole, selezionata nel passato dall'esperienza di generazioni di contadini di montagna e giunta fino a noi come prodotto tipico di alta qualità ed esempio di quella biodiversità che conferisce ai prodotti agroalimentari italiani la specificità che tutto il mondo ci invidia. Alimento povero le rape, un tempo diffuse sulle tavole delle genti di montagna per la facilità di coltivazione, la quale veniva peraltro incoraggiata dalle autorità austroungariche del tempo per l'alto contenuto di vitamine B e C che le rendevano indispensabili per le propietà contro la pellagra; le rape, cibo oggi ugualmente sano, e particolarmente interessante in quanto ipocalorico.

E ancora, come contorno al pregiato insaccato, i Crauti della Val di Gresta, dolci e tenerissimi, conservati nei classici barili sotto sale e preparati con il delicato cavolo cappuccio coltivato nei campi montani di questa valle vocata alla produzione di ortaggi, conosciuta come la Valle degli Orti Biologici. I crauti non possono quindi mancare in questo menù invernale tipico, a maggior ragione considerando l'altissimo valore salutare di questo alimento che, utilizzando come materia prima il cavolo già di per sé pianta medicinale, acquisisce nel corso della sua preparazione un contenuto ancora maggiore di vitamina C e di altri componenti benefici per l'apparato gastrointestinale.

Non può mancare nemmeno su questa nostra tavola l'eclatante colore della polenta preparata con la Farina Gialla di Storo, ormai notissima e ricercata come insostituibile ingrediente per polente saporite e di carattere, si dice infatti che quella fatta con il Grano Marano di Storo è una polenta che si mastica; e per uno stile montano tradizionale, la polenta deve essere dura, perché, come dice il proverbio, polènta dura la sta 'n sintura, a ricordarci che i nostri nonni dovevano placare la loro fame con una polenta consistente, che riempisse la pancia e la cintura, assai tirata in quei tempi di magra, e non per diete ipocaloriche.

Riprendendo il disordinato menù dall'inizio anziché dalla fine come è stato fatto finora, saltiamo oltre il confine che abbiamo peraltro cancellato e planiamo in una cucina di Bagolino dove si sta approntando un primo piatto a base di Malfatti Bagossi, che qui vengono tradizionalmente preparati con il pangrattato, un recupero di pane secco, perché in cucina non si deve buttare nulla, come ben ci hanno insegnato le nostre madri e nonne aduse per necessità al gran risparmio; insegnamento che oggi le figlie e le nipoti dovrebbero tenere in gran considerazione, non solo per la povertà che ritorna, ma soprattutto per il risparmio delle risorse energetiche, e anche per una moralità dei consumi e per rispetto del cibo. Pangrattato dunque, e non farina come da ricetta lombarda, né pane raffermo ammollato nel latte come da ricetta trentina per gli strangolapreti; non a forma di pallina, né di gnocco classico o raccolti a knell con il cucchiaio, ma a bigolotto bislungo; ma comunque con spinaci, meglio se selvatici, qui chiamati Coméde che sarebbero il Chenopodium bonus-henricus L. in termine scientifico e le farenèle in altri dialetti; in ogni caso lavorati con Formaggio Bagòss e conditi con burro di affioramento non pastorizzato di produzione locale, fragantissimo, e ancora Formaggio Bagòss grattugiato, imprescindibile.

Ed eccolo dunque questo mitico formaggio che non è riuscito ad arrivare intatto al momento del suo assaggio perché spizzicato a più riprese dagli incontenibili ospiti, Giù le mani dal Bagòss, ti ho visto sai? Se fatto ad arte in azienda, se ben stagionato, se nato sui pascoli alpini questo formaggio che merita la denominazione di Grana Bresciano rappresenta un'eccellenza della gastronomia italiana, un prodotto caseario inimitabile al di fuori della sua area di produzione che è esclusivamente la Valle del Caffaro. Un formaggio unico per le sue caratteristiche organolettiche, e cosa poco risaputa, uno straordinario contenitore di flore probiotiche, una cinquantina di microrganismi capaci di sterminare in capo a pochi giorni innesti sperimentali di micidiali germi patogeni, dalle salmonelle, alle listerie, ai coli, agli stafilococchi, caratterizzandosi come uno degli alimenti più sani e sicuri della gastronomia italiana. Come resistere quindi dal pizzicare questa delizia storica quando appare sulla nostra tavola? Storica, certo, perchè anche se ha due anni di stagionatura, viene però da un lontano passato, da secoli di presenza in questo territorio e da una consumata abilità artigianale fatta di saperi antichi, da passione per la terra e per i suoi lavori. Presidio Slow Food anche questo prodotto, che troviamo garantito solo dal marchio Bagòss della Cooperativa Valle di Bagolino.

E dopo tanti assaggi e furtarelli di leccornie a mano lesta, si potrebbe anche chiudere questo menù, se non fosse che una torta di mele nostrane profumate potrebbe essere gradita da quei commensali senza fondo che ingurgitano quantità inimmaginabili di cibo, magari senza aumentare di un etto il loro peso. Così ecco la torta di mele, dessert per tutte le stagioni, ma solo ai tempi nostri, perché una volta ogni frutto aveva i suoi tempi di maturazione e di conservazione, solitamente brevi, a differenza delle mele che erano tra i frutti più serbevoli, e tra le varietà antiche alcune si conservavano fino a Pasqua. Se si avesse la fortuna di reperire mele di antiche varietà presenti nel nostro territorio, potremmo degustarle al naturale o preparare marmellate e torte di un sapore dimenticato; val bene la pena di cercare qualche pianta superstite, ben 15 varietà di mele antiche ne censì anni fa una ricerca effettuata nella sola Valle del Caffaro, un patrimonio agricolo incredibile disperso per incuria e leggerezza, un capitale di gusto perduto e irripetibile. Anche nel nostro menù infatti ci dovremo accontentare di frutti più moderni, ma comunque cresciuti nel Pian d'Oneda senza tanti interventi colturali, e la torta di mele, leggera e non troppo dolce, può così chiudere onorevolmente questo menù.

Brevemente un cenno ai vini: Teroldego tra i vini trentini e Botticino Classico tra i bresciani, a scelta, secondo gli abbinamenti, ma a nostro parere anche secondo i gusti, perché la cucina deve essere un piacere prima che una pedante osservanza di protocolli gastroenologici. Come del resto è lo spirito che ha guidato questo menù di confine senza confini.

Foto di Luciano Saia
                                                                    



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