09 Aprile 2012, 09.54
Vobarno Valsabbia
I racconti del lunedì

La Valle Sabbia nel 2037

di Ezio Gamberini

All’ultimo concerto valsabbino di Charlie Cinelli, il simpatico cantautore originario di Sarezzo ha raccontato un gustoso episodio...


Si trovava nella “bassa” per una serata e, volendo cantare un pezzo dedicato al Benaco, chiese al pubblico: “Chi è del lago?”.
“Io!”, rispose convinto un tipo rubicondo.
“E dove abiti?”. “A Vobarno!” replicò l’originale spettatore.
Chissà perché noi valsabbini, e soprattutto gli abitanti di Vobarno che con Salò geograficamente pur confina, ci spacciamo per “lacustri”.
Sfido qualsiasi residente del luogo a non aver pronunciato, almeno una volta nella vita: “Mhhh, abitiamo a sei/sette chilometri da Salò…”.
 
Altri invece, tra i quali il sottoscritto, alla classica domanda “Da dove vieni?”, rivolta da villeggianti conosciuti in occasione delle vacanze, o da commilitoni durante la “naja”, rispondevano da veri ‘duri’: “Abito a Vobarno, dove c’è l’Acciaieria Falck”.
“Ah…” rispondevano quasi intimoriti gli interlocutori, e se qualcuno non dimostrava sufficiente stupore, il colpo seguente era: “Hai mai visto la pubblicità delle lamette per la barba alla televisione? A Vobarno si producono le famosissime “Lamette Superinox”.
E nel periodo in cui a “Carosello” imperversavano, oltre alle citate “Lamette Superinox”, Mina per la Tassoni, Tino Scotti per il Confetto Falqui, Carmensita per il Caffè  Paulista, Mimmo Craig per l’Olio Sasso, Ernesto Calindri col suo Cynar, il tutto “bevuto” dai telespettatori come “vangelo” disceso dal cielo, l’affermazione chiudeva ogni discorso.
 
Bisogna poi tener presente che in quegli anni di “boom” economico, era facile millantare qualsiasi cosa.
Così noi ragazzi, dopo una gita ad Arona organizzata dall’oratorio per visitare il “San Carlone”, la statua alta oltre trenta metri dedicata a San Carlo Borromeo, e fatta una puntatina nella vicina Svizzera per comprare due barre di cioccolato o una stecca di sigarette per il papà (e, ehmm...ehmm, un pacchetto per noi ragazzi…), potevamo affermare con fierezza che “si era andati all’estero”.
 
Forse noi valsabbini dovremmo “vedere” la nostra valle con gli occhi di un mio parente di Milano che abita in centro città.
L’ho invitato a Vobarno, insieme a sua moglie, una primavera di due anni fa, dopo un decennio in cui non ci si è più rivisti. Era sabato e fino alle sei del mattino imperversarono furiosi temporali.
Quando il cielo si rasserenò, lo spettacolo che si presentò ai miei occhi fu straordinario: le colline che circondavano Vobarno parevano damigelle vestite di verde smeraldo a far da corona a una sposa limpida e azzurrissima, ripulita da un venticello leggero e frizzante, d’incantevole bellezza.
 
Ci tenevo a fare bella figura: “Valsabia fa mia la stűpida, dumà!”, canterellavo la sera prima.
Come d’accordo li ho attesi all’uscita della tangenziale. Vista la mia autovettura, che avevo comunicato al cellulare, dopo aver accostato, sono scesi e prima di salutarmi hanno rivolto lo sguardo alla Madonna della Rocca, sgranando gli occhi e guardandosi poi attorno, estasiati.
Anche a me parve in quel momento di vedere la mia valle per la prima volta. La Rocca si sarebbe potuta toccare con un dito, tanto il cielo era terso, così come Cargiù e la valle di Collio.
 
Come da programma, prima di pranzare a casa nostra ci saremmo recati ad Anfo per salutare una nostra congiunta.
Ho volutamente evitato di percorrere la tangenziale, e abbiamo imboccato la SP IV che attraversa tutti i centri abitati. “Un’altra!”, esclamò G. con stupore, quando transitammo davanti alla bella Rocca di Sabbio Chiese. Poi, proseguendo, oltrepassiamo la roccia che lambisce la strada in territorio di Barghe, che incute timore di giorno e angoscia di notte, subito mitigati dai saltelli e dalle gradevoli anse del Chiese, mentre lo stupore si rinnova alla vista della Rocca di Nozza e dell’accogliente piazza sede del mitico mercato, al motto “Noi sognamo l’Italia Romana” dipinto sulla facciata di un edificio a Lavenone, e infine nel percorrere la costa del lago d’Idro, patria di surfisti e di turisti olandesi, in particolare.
 
Dulcis in fundo, un’altra Rocca, quella di Anfo, vera perla napoleonica, unica nel suo genere in Europa.
Poi scendiamo alla spiaggetta e tutti insieme  percorriamo il lungolago per risalire infine nei pressi del campo sportivo. I miei parenti, storditi da queste incomparabili bellezze, sembrano dire: “Poveri noi, che abitiamo a due passi dal Duomo”.
Al momento del commiato nel tardo pomeriggio, G. e sua moglie non si limitarono a manifestare il loro stupore per i luoghi che avevano visitato, ma ammisero apertamente che per loro poter abitare in un paese come il nostro sarebbe stato un sogno.
 
E non ho voluto girare il coltello nella ferita, perciò ho evitato di raccontare loro ciò che mi è capitato alcuni anni orsono, durante una passeggiata sulla riva del fiume, in territorio di Sabbio, un paio di chilometri dopo il cimitero di Clibbio nel punto in cui il Chiese s’addentra nel bosco formando un’ansa d’incomparabile bellezza, quando incredulo notai un magnifico cigno che galleggiava placidamente, maestoso e regale. Vi ritornai il giorno successivo, munito di macchina fotografica. Era ancora nei paraggi, così potei immortalarlo.
Non mi è mai più capitato di rivederlo.
 
Per fortuna in questo viaggio ci siamo limitati a percorrere la direttrice principale del fiume Chiese, senza addentrarci ad esempio alle Pertiche, o nella Conca d’Oro, oppure Capovalle con i suoi stupendi panorami, senza parlare di Bagolino, che meriterebbe un capitolo a se stante, o le numerosissime testimonianze storiche e artistiche disseminate in tutta la valle;  l’ultima curiosità, il laghetto di Bongi, in quel di Mura, visitato soltanto quest’estate, dopo che per mezzo secolo ne ho ignorata l’esistenza …
A tutto ciò noi siamo abituati, così come siamo assuefatti alle storie “minime” di personaggi straordinari che hanno popolato la Valle Sabbia.

Alcune meritano si essere narrate.
Protagonista di questo episodio è l’indimenticabile parroco di Vobarno, Mons. Tommaso Vezzola, che resse per lunghi anni la parrocchia, dal 1933 al 1969, dopo esserne stato curato. Altri, meglio di me e ben più titolati, possono, anzi, debbono più dettagliatamente narrare in apposito volume le sue “disavventure”. Chi legge e possiede orecchi buoni, intenda, e si metta all’opera!
Io mi limito a raccontare a sommi capi di quando don Tommaso fu invitato a un grande pranzo, offerto dal cav. D., proprietario di una fornace con annesso magazzino di materiali edili, il quale festeggiava una ricorrenza particolare. Il padrone di casa era preoccupatissimo e affaccendato in modo che tutto procedesse per il meglio.
 
Gli invitati dovevano rimanere soddisfattissimi.
Si assicurò con i cuochi e i camerieri che tutto fosse perfettamente in ordine, e giunse finalmente il momento in cui tutti si sedettero a tavola e il cavaliere diede inizio alla festa, accomodato alla destra del parroco al tavolo principale.
Fu servita la minestra e mentre il proprietario conversava animatamente con il commensale alla sua destra, notabile del paese, con fulmineo gesto e senza essere notato da alcuno il parroco gli versò nella fondina l’intero contenuto della saliera e poi si “tuffò” nel suo piatto cominciando avidamente ad assaporare la minestra, con enormi cucchiaiate.
 
Quando il D. portò alla bocca il primo cucchiaio, si bloccò di colpo: era quello che il prevosto aspettava. “L’è salada come ‘l bec – gli confidò con un fil di voce Monsignore – El fae finta de nient e ‘l la mange töta!”.
Il cavaliere, facendo buon viso a cattiva sorte, la trangugiò fino all’ultimo sorso, non potendo in aggiunta rifiutare il grana grattugiato che il parroco gli aveva versato generosamente nel piatto; “Dai, el formai el ghe völ, se no la minestra la sent de nient”.
Terminato il supplizio si alzò con una scusa e andò in cucina dove esplose come un vulcano, ma ci volle ben poco per capire che altro non si trattava se non dell’ennesimo scherzo di quel briccone con la tonaca. Ingoiò amaro, ma tutto sommato tirò un sospiro di sollievo perché l’onore era salvo.
 
Un altro gustoso episodio narra ancora del nostro “eroe” più volte invitato da un “notabile” del paese a partecipare a una serata speciale a base di spiedo e vinello sublime. Ma nonostante le reiterate promesse, di questo invito non c’era traccia e trascorse così parecchio tempo. Il parroco era parecchio indispettito e vi lascio immaginare come reagì quando seppe che l’autorevole personaggio in questione, che per comodità narrativa chiameremo “dottor Umberto”, aveva invitato a casa sua per la domenica successiva un altro “pezzo grosso” del paese, che sempre per comodità chiameremo “avvocato Luigi”. Andò su tutte le furie: “Ma come! A me promesse e promesse e non m’invita mai.
A ‘quello’, domenica chissà che spiedo con i fiocchi gli offrirà … Ve la farò vedere io!”.
Con l’avvocato Luigi i rapporti erano piuttosto frequenti, sia per motivi professionali, sia per la grande devozione che tutti indistintamente nutrivano nei confronti del parroco.
 
Una mattina in cui l’avvocato era assente dall’ufficio per un affare importante da sbrigare in città, il prete si recò presso il suo studio, abbindolò la segretaria e con una scusa badò a restare solo.
Si avventò come un falco in direzione dello scaffale dove era certo fossero collocati i fogli di carta intestata, e ne arraffò un paio.
Il giorno dopo il dottor Umberto ricevette una lettera dell’avvocato Luigi, il quale si scusava assai, ma domenica, causa un improvviso impedimento, era impossibilitato ad accettare l’invito.
 
Domenica sera alle sette Monsignore avrebbe voluto essere una mosca per assistere alla faccia inebetita del dottor Umberto, mentre apriva la porta all’ospite accompagnato dalla gentile consorte che puntualmente si era presentato corredato da un vassoio di paste fresche.
Anche in questo caso, dopo che il padrone di casa gli porse la missiva, non ci volle molto per capire, e quando l’avvocato lesse avidamente la lettera che “lui” stesso aveva spedito al dottor Umberto, lo fissò negli occhi, insieme scossero la testa e convennero che, nonostante tutto, quello era il loro pastore e dovevano tenerselo.
E per puro caso lo “scombinato” pastore transitò davanti alla porta di casa proprio in quel preciso momento, così fu invitato dai due a gustare salame di prima qualità, formaggella stagionata, prelibati sottaceti e un paio di bottiglie speciali che da anni attendevano in cantina l’occasione buona per farsi “tirare il collo”.
Fu organizzato uno spiedo per la settimana successiva e, naturalmente, l’invito fu esteso anche a Monsignore.
 
Ma questo racconto s’intitola “La Valle Sabbia nel 2037”, ed eccoci, dunque, nel 2037.
Il sindaco Mamadou e il parroco don Fatos si stimavano, da sempre.
Fatos era figlio di un albanese emigrato a Bagolino negli anni ’90, il quale in poco tempo conquistò la fiducia del suo datore di lavoro che pian piano gli affidò incarichi sempre più delicati e impegnativi, sino a designarlo come suo successore alla guida della piccola azienda.
Fatos nacque all’ospedale di Gavardo, crebbe sereno e benvoluto, con un carattere mite, buono e generoso, ma anche arguto e astutissimo: in breve divenne capo dei chierichetti di don Arturo.
 
Da giovane fu attivo a lungo in comunità montana, partecipando alle commissioni per organizzare le manifestazioni culturali, e lì conobbe Mamadou, che si occupava della programmazione di attività sociali e politiche.
Anche Mamadou nacque in Valle Sabbia, con i suoi che erano arrivati a Vobarno dall’Africa alla fine degli anni ’80. Suo padre fu assunto in un’azienda di Vestone, comprò casa, come tanti, e per venticinque anni pagò un mutuo non indifferente.
Mamadou conseguì la laurea in giurisprudenza e collaborò da subito con un grosso studio legale cittadino. Prima di essere eletto sindaco, il primo di colore dell’intera valle, fu consigliere comunale per due tornate. Fatos invece, dopo il diploma e alcuni anni di università, seguì da adulto quella vocazione che pure lo “premeva” da parecchi anni. Dopo la consacrazione, fu curato in tre parrocchie della provincia e poi nominato parroco di Vobarno, nella sua Valle Sabbia.
 
I due si vedevano spesso ed anche quel venerdì sera, in cui Mamadou festeggiava il compleanno, il sindaco riferì al prevosto che l’indomani sarebbe stato occupato e rifiutò l’invito che lo esortava a visitare insieme la canonica di Carvanno, da poco restaurata.
“Mi spiace, ma anche domani avrò un matrimonio”, comunicò con una punta di sarcasmo al parroco, il quale masticò parecchio amaro perché nell’ultimo anno, dei diciotto matrimoni celebrati, tre li benedisse don Fatos sull’altare, ma gli altri quindici pigliarono la direzione del municipio.
Alla fine della serata il prete consegnò al sindaco il suo regalo di compleanno: una magnifica penna stilografica. Mamadou era commosso e non finiva di ringraziarlo: “E’ un pensiero fatto col cuore … - gli rispose don Fatos – così ogni volta che la utilizzerai nelle occasioni importanti, ti ricorderai di me!”.
“Beh, più importante del matrimonio di domani …”, concluse beffardo il sindaco, rigirando ancora una volta il coltello nella ferita ancora aperta del povero prete.
 
Si rividero lunedì mattina dopo un fine settimana carico di impegni per entrambi, quando, per puro caso, il parroco dovette passare dall’ufficio del primo cittadino per sbrigare alcune pratiche burocratiche relative a un immobile della parrocchia.
“Allora, com’è andato il ‘tuo’ matrimonio?”, gli chiese mansueto come un agnellino don Fatos. “Bene … bene … benissimo!” rispose in un crescendo rossiniano l’impettito ufficiale del comune.
“Ma chi erano questi due?”. “Aspetta, vado a prendere il registro…”. Il prevosto fece una fatica del diavolo per trattenersi, mentre rimirava lo sguardo ebete fornito dal sindaco il quale, rimasto a bocca aperta dopo aver aperto il registro dei matrimoni, vide che la pagina sulla quale aveva vergato di suo pugno i nomi dei coniugi, e fatto apporre le relative firme, era assolutamente bianca, intonsa e pura, come nuova!
 
Quel manigoldo in abito talare gli aveva regalato una penna stilografica con una cartuccia di inchiostro “simpatico”, il quale ha la “simpatica” caratteristica di sparire dopo qualche ora.
Il sindaco cercò di tenere nascosta la cosa, ma ebbe parecchie grane, anche perché gli sposi erano volati a Honolulu proprio domenica pomeriggio.
E a rendere ancora più popolare la faccenda contribuì un volantino confezionato in carta speciale, indistruttibile, stampato in cinque o seimila esemplari coloratissimi e distribuito in tutta la valle, non si sa da chi.
 
Una copia capitò anche tra le mani di Nino, cinque anni, il bimbo di Mamadou che, d’accordo con la moglie Rosanna, era stato chiamato Giovanni per ricordare il nonno, come usava una volta.
Nino da poco aveva imparato a confezionare barchette e aeroplanini di carta e quel foglio, incomprensibile ai suoi occhi per quanto riguardava il testo, gli era proprio simpatico, tutto colorato. In un baleno sul retro vi disegnò una pigna, presente su tutte le scartoffie di papà (era il simbolo del comune di Vobarno!), costruì una magnifica barchetta, raggiunse il vicino “ponte vecchio”, con mossa spavalda salì in piedi sul parapetto, come trent’anni prima fece l’originale predecessore di don Fatos quando liberava in cielo centinaia di palloncini che i bambini gli affidavano dopo aver attaccato a ognuno un bigliettino contenente messaggi di pace, e la buttò nel Chiese.
 
La barchetta fece tre o quattro giri per aria, miracolosamente si adagiò sul pelo dell’acqua dalla parte giusta e cominciò a navigare. Nino vide che scendeva a valle, allontanandosi pian piano, e la seguì con lo sguardo fino a quando sparì. Poi la piccola imbarcazione proseguì fino all’Oglio e infine si gettò nel Po.
E quella barchetta temeraria e un po’ sfacciata, ricolma di prodigiosa energia trasmessa dalle calde manine del bambino, statene certi, alla fine arriverà sino al mare e da quel giorno, nell’anno del Signore 2037, incurante delle antiche mire lacustri, l’ambizioso centro valsabbino vorrà essere chiamato “Vobarno a Mare”.
 


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