14 Giugno 2007, 00.00
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La Scuola di Don Milani a Barbiana

«Lettera ad una professoressa», 1967-2007

Da Barbiana, frazione montana di Vicchio, nel Mugello fiorentino, partì, quarant’anni fa, esattamente il 26 maggio 1967, il messaggio della “Lettera ad una professoressa”.

Da Barbiana, frazione montana di Vicchio, nel Mugello fiorentino, partì, quarant’anni fa, esattamente il 26 maggio 1967, il messaggio della “Lettera ad una professoressaâ€. L’eco e la risonanza furono grandi: il libro e l’esperienza della scuola di Don Lorenzo Milani intercettarono in quella fase le attese di un profondo cambiamento della scuola e dell’educazione e divennero l’orizzonte di migliaia di giovani studenti, insegnanti e operatori sociali impegnati nella ricerca di un nuovo modo di “fare scuolaâ€.

Sul finire degli anni sessanta, la “Lettera ad una professoressa†diventò il manifesto del rifiuto di qualunque forma di selezione e dell’impegno per la trasmissione dei saperi critici attraverso i quali formare “cittadini sovrani†e affermare principi di equità e solidarietà.

Molto è cambiato da allora, nella scuola come nella società. Barbiana continua però ad esercitare un’attrazione che sembra intensificarsi nel tempo. Per questo, a partire da oggi, e per alcune settimane, “Vallesabbianews†ospiterà articoli e riflessioni dedicati all’esperienza di don Milani e, più in generale, al mondo della Scuola. Apriamo questa pagina di approfondimento con un articolo dei Paola Mastracola pubblicato sul quotidiano la “Stampaâ€.


Caro don Milani, rileggere oggi il suo libro, mi creda, è illuminante e anche un tantino inquietante: ci aiuta a capire che la scuola di oggi è esattamente la scuola che voleva lei quarant'anni fa. Ma ci chiediamo se forse non sia per questo che non funziona più tanto: perché nel frattempo sono passati quarant'anni…

Dunque, nel suo libro Gianni era il figlio del contadino, Pierino il figlio del dottore. Gianni era definito un deliquente dai professori, perché «era svagato e non amava i libri». Pierino andava benissimo a scuola perché era uno dei «signorini esperti nel frigger aria». «Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere, ma del mondo dei grandi sapeva tante cose».

Nella Costituzione sta scritto che tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, ma la scuola di allora «aveva più in onore la grammatica che la Costituzione». Gianni non sapeva esprimersi in una lingua corretta, perché «le lingue le creano i poveri ma i ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro, o per bocciarlo». Il ragazzino che scrive la lettera alla professoressa diceva che la scuola di allora era classista e razzista. La cultura, stessa cosa: era classista e razzista. Non c'era posto per i figli dei contadini. Perché non fossero sempre esclusi dall'istruzione, il ragazzino chiedeva di cambiare la scuola.

Chiedeva parecchie cose, tra cui: di non interrogare sulle poesie di Foscolo perché Foscolo scrive parole difficili, come inaugurare che vuole dire augurare male: «C'è scritto nella nota. Ma è una bugia. L'ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri»; di non mettere più in programma l'Eneide, perché è scritto in una «lingua nata morta»; di non fare l'Iliade nella traduzione del Monti, perché «il Monti chi è? uno che ha qualcosa da dirci? uno che parla la lingua che occorre a noi?». Gianni, il figlio del contadino, è andato via da scuola a 15 anni e lavora in officina, «non ha bisogno di sapere se è stato Giove a partorire Minerva o viceversa. Nel programma d'italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici».

Era il 1967. Quarant'anni dopo possiamo dirle che abbiamo esaudito quasi completamente le richieste di quel suo ragazzino, e questa notizia di sicuro le farà piacere; a parte il contratto dei metalmeccanici che non so se abbiamo messo davvero nei programmi (personalmente spero di no), per il resto sono sicura: studiamo abbastanza la Costituzione e pochissimo la grammatica; siamo completamente indifferenti alle acca del verbo avere; non bocciamo quasi nessuno; il Foscolo lo facciamo poco, giusto al triennio dei licei; e il Monti nessuno più sa chi sia perché abbiamo approntato meravigliose versioni in prosa dell'Iliade, scritte in uno stupendo stile quotidiano corrente. Più o meno la lingua che usiamo per andare a comprare il pane. Il problema è che, così facendo, qui da noi nessuno sa più niente e nessuno ha più voglia di studiare. Nessuno, né i poveri né i ricchi. E questa seconda notizia non so se le farà piacere.

Viste le condizioni in cui siamo, mi sono fatta l'idea che sarebbe il caso di ripristinare l'Iliade del Monti. E anche di studiare molto il latino proprio perché è una lingua morta, e fare molta grammatica, e leggere molto Foscolo con le note (come può dire che non amava i poveri, cosa significa?). Mi scusi se oso dirle queste cose, ma sa, l'Iliade del Monti è infinitamente più bella di tutte le versioni piatte e prosaiche che noi (demagoghi e vigliacchi!) ci siamo inventati per rendere Omero a portata di tutti; e i ragazzi lo sanno: tra un pezzo del Monti e un pezzo del traduttore postmoderno non hanno dubbi, scelgono il Monti.

Ma soprattutto sarebbe bene tornare alla sua Iliade proprio perché è difficile, e i nostri giovani hanno ora più che mai bisogno di incontrare la difficoltà, dal momento che vivono in un mondo dove tutto è diventato facile e dunque tremendamente insignificante e ben poco gratificante. Io non lo so perché la letteratura sia stata giudicata così elitaria e impopolare e poco democratica, ma non lo è, mi creda, e dovremmo una buona volta liberarci di questo sacro tabù mistificante. Non possiamo continuare a offrire ai giovani del cibo premasticato, con l'idea che così fanno meno fatica e ci arrivano tutti.

Questa è finta democrazia. E soprattutto produce due cose: ignoranza e un'infinita tristezza (un panino al prosciutto sminuzzato e ridotto in pillole non sa più di niente, è vomitevolmente sciapo: lei lo mangerebbe mai?). Fatica, difficoltà e bellezza sono le cose che dobbiamo reintrodurre nella scuola. Solo la fatica di spaccarsi la testa su un libro difficile renderà i nostri giovani culturalmente forti, e quindi preparati ad affrontare la vita e il lavoro.

E solo la bellezza (delle parole del Monti, per esempio!) li convincerà che vale la pena di farla, quella fatica. Io lo so che lei è stato molto amato perché dava voce ai poveri contadini e ai loro figli, esclusi dalla cultura classista dei Pierini figli dei ricchi dottori e professori. E così era logico che fosse (anche se mi disturba un po' veder grondare a ogni riga del suo libro tanto odio di classe…).

Allora, forse, era anche giusto. Ma credo che oggi lei scriverebbe un altro libro, molto diverso, perché vedrebbe con chiarezza che è proprio la finta democrazia del dumbing down (è una parola inglese che usiamo per dire la semplificazione eccessiva di tutto) a creare diseguaglianza sociale, privilegiando i ricchi ben forniti di denaro e relazioni utili, e togliendo ai poveri la loro unica arma possibile: un'istruzione alta; è proprio in questa scuola rasoterra che vincono i Pierini più e meglio di prima, stracciando i Gianni 10 a 0, e per di più senza fatica alcuna. E lei questo non l'avrebbe voluto. Sì, credo che oggi lei sarebbe il primo a invertire la rotta.

Di PAOLA MASTROCOLA
Da La Stampa


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