Si č aperto il processo contro i superstiti della gita in motoslitta che si concluse con la morte di quattro persone.
Quattro vittime, sette imputati. Questo il bilancio della slavina che il 13 gennaio di due anni fa si staccò dal Dosso dei Galli, sul monte Maniva, trascinando con sé e sommergendo Andrea Brizzolari, Paolo Zanetti, Fausto Plodari e Fausto Giusteri. A due anni da quella terribile domenica che ha distrutto diverse famiglie e trasformato in un incubo la vita di chi ha potuto raccontare quel pomeriggio, ieri al Palagiustizia è iniziato il processo ai superstiti. Davanti alla seconda sezione penale del Tribunale (giudice Paolo Mainardi) e al pubblico ministero Paolo Abritti, sono comparsi Guido Cappelletti, Walter Tavelli, Dino Mora, Marco Zanelli, Cristian Bresciani, Massimiliano Guerra e Mauro Marocchi. I sette (sei conducenti di altrettante motoslitte ed un passeggero) devono rispondere di disastro e omicidio plurimo colposi.
Uno tsunami di neve
Secondo l’accusa la comitiva di amici si inoltrò colpevolmente lungo un tracciato che, in quelle condizioni climatiche, doveva essere evitato. Quel pomeriggio, infatti, la neve cadeva mista a pioggia, la visibilità era limitata e il rischio valanghe, stando ai bollettini ufficiali, segnalava un rischio di livello 3, quindi moderato alla vigilia, ma destinato ad aumentare a 4 e quindi a forte il giorno dell’escursione. Condizioni al limite per gli inquirenti che collegano il distacco del fronte nevoso alle vibrazioni provocate dal passaggio delle dieci motoslitte.
Secondo la ricostruzione degli esperti chiamati dalla Procura, dal Dosso dei Galli quel pomeriggio si staccò un muro largo duecento metri capace di correre a valle per oltre cinquecento. Di farlo tanto velocemente da non dare il tempo a tutti di accelerare e lasciarsi alle spalle la valanga o di indietreggiare per dare la precedenza a quell’imponente tsunami di neve che ha inghiottito quattro persone e centrifugato i loro mezzi. Ieri, all’avvio del processo il Tribunale ha potuto raccogliere il ricordo di alcuni testimoni chiamati dall’accusa. In aula il padre di una delle vittime, uno dei giovani che quel pomeriggio partecipò almeno in parte all’escursione, ma anche tecnici dell’Arpa e soccorritori. Il primo a rispondere alle domande del pm e del giudice è stato Antonio Plodari, papà di Fausto e consuocero di uno degli imputati: Dino Mora. Drammatica la deposizione dell’uomo. «Mio figlio - ha detto - non era esperto. Era alla prima uscita della stagione. A quanto ho capito erano fermi quando la slavina si è staccata. Mora mi ha detto poi che lui era più avanti rispetto agli altri. Quando sono arrivato in Maniva mi hanno accompagnato sul posto della tragedia. Ricordo tre bandierine rosse. Li sotto c’erano i corpi dei ragazzi». Plodari non dice molto di più. Anche se qualcosa di più sembra sapere. «Non sarò io a dire quello che tocca ad altri». A nulla valgono le rassicurazioni del pm, quelle dei difensori degli imputati (gli avv. Luisa Morelli e Ennio Buffoli) e la minaccia del giudice di un’incriminazione per falsa testimonianza.
«Nessun segnale di pericolo»
Lucida la ricostruzione di Maurizio Reboldi, 46enne che quel pomeriggio si trovava in comitiva. A salvarlo dalla tragedia una telefonata della moglie che lo avvisava del suo arrivo al rifugio Bonardi con il figlioletto. «Ho ricevuto la telefonata qualche minuto prima della slavina - ha detto - così ho girato la motoslitta e ho abbandonato la comitiva. Quando sono arrivato al rifugio un ragazzo con un cane mi ha detto quello che era appena successo. Così siamo tornati sul posto. Ho notato che la crepa dalla quale era partita la valanga era circa 200 metri sopra il punto in cui le motoslitte erano ferme. Il corpo di uno dei conducenti era sdraiato sulla neve, gli altri non si vedevano. Così abbiamo cominciato a scavare. Il cane ha trovato due vittime, il recupero della terza è stato decisamente più complesso». Reboldi ha spiegato il tragitto compiuto. «Stavamo percorrendo la provinciale 345 del Crocedomini, che in inverno è transitabile solo con le motoslitte, previa l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Collio, che costa circa 70 euro. Lungo il percorso, che non era chiuso al transito, non ricordo la presenza di segnali di divieto o di pericolo». Un’assenza della quale si occuperà la sezione civile del Tribunale. La mancata segnalazione o chiusura della strada, infatti, è ragione che ha indotto i parenti delle vittime a citare in giudizio il Comune di Collio. Il processo penale, invece, tornerà in aula il prossimo 26 maggio.
Pierpaolo Prati dal Giornale di Brescia
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