Angelo Tavoldino da Vestone nacque il 18 agosto 1584 e nell'afosa giornata estiva mamma Brigida e papŕ Antonio gli imposero il nome di Modesto. Nomen omen come si dice. Nel nome cioč, il presagio di un destino.
Angelo Tavoldino da Vestone nacque il 18 agosto 1584. Veramente nella afosa giornata estiva, a quello che sarà l’ultimo frutto di una nutrita nidiata di figlioli, mamma Brigida e papà Antonio imposero il nome di Modesto. Nomen omen come si dice, nel nome cioè il presagio di un destino.
Modesto insomma il ragazzo e poi l’adulto lo fu di nome e di fatto, ma non solo, crescendo manifestò anche spiccate doti di altruismo, di dedizione alle cause più nobili ancorché faticose e soprattutto un grande spirito di religiosa pietà . Per saperne qualcosa ricorriamo al Bonari Valdemiro, uno storico cappuccino che, verso la fine del XIX secolo, ha tessuto le lodi dei suoi confratelli della Provincia Bresciana, i quali nella lunga storia di apostolato, fatta di conversioni, di condivisione della fatica di vivere con i poveri, di lotte contro le prevaricazioni e di predicazione, hanno dato vita a storie spesso appassionanti ed avvincenti.
Gli anziani genitori, vista la spiccata attitudine per gli studi di questo ultimogenito, pensarono bene di mandarlo ad istruirsi a Brescia, presso il collegio dei Gesuiti. Ma il richiamo per la semplicitĂ e la povertĂ predicata da San Francesco ebbero su di lui una tale attrazione che, non appena aperto il convento cappuccino di Vestone nel 1603, Modesto corse a bussare a quella porta, dove gli eredi del poverello di Assisi lo accolsero e dove, alla fine del periodo di noviziato, gli imposero il nome di Angelo.
La sua vita fu interamente votata al servizio della gente, e non si trattò dei soli incarichi istituzionali, la predicazione, le confessioni eccetera, ma entrò da subito nei problemi reali della vita quotidiana, tormentata al tempo da inenarrabili disagi, guerre, malattie e soprattutto fame. La sua sporta era sempre fornita di pane che – nel giro della questua – distribuiva ai poveri. Dopo alcuni anni, quando divenne guardiano del convento, lo trasformò in un ospedale dove lui stesso trasportava di peso da ogni villaggio della valle gli infermi più poveri e debilitati.
Con questo carisma divenne presto confidente e consigliere dei poveri e dei ricchi e, mentre gli uni si affidarono al suo carisma religioso, gli altri spesso si giovarono del suo arbitrato che permise di sedare annose liti e arrestare sconsiderate faide. Ciò lo rese presto famoso come l’angelo della pace nella sua valle. Godette di grande stima anche presso i superiori i quali spesso si avvalsero della sua facondia per le missioni e soprattutto per le predicazioni nella Rezia, in quel territorio contaminato dalla deviazione protestante al cui sradicamento dedicò non poche energie, da dove però ritornava sempre con rinnovata dedizione nella sua amata terra.
Nel 1629 si ebbero le prime avvisaglie di quella infezione che nella storia italiana è passata con il nome di Peste del Manzoni. In uno degli ultimi capitoli de “I promessi sposi” ce ne vengono narrate le vicende attraverso gli occhi di Renzo a Milano, l’incontro con il viandante che l’aveva immaginato un untore, la compassione per l’ammalata sola e rinchiusa nella sua povera abitazione e – come dimenticare – la sequenza quasi cinematografica della piccola Cecilia agghindata a festa per l’ultimo viaggio e deposta con premurosa delicatezza dalla mamma sul carro del monatto.
Nonostante le circonlocuzioni verbali con le quali inizialmente i responsabili della pubblica sanità cercarono di esorcizzare il timore della peste, era ben chiaro a tutti ciò che si stava manifestando come i prodromi di un avvenimento sconvolgente. Angelo chiese immediatamente l’autorizzazione ai suoi superiori per recarsi a Brescia a curare gli ammalati. Il superiore provinciale, che non poteva permettersi di scoprire il posto di guardiano nel convento di Vestone, gli ingiunse di non muoversi, tuttavia – soggiunse – gli sarebbe stato consentito di prodigarsi per la cura degli ammalati lì, nella sua valle, qualora il morbo vi si fosse malauguratamente esteso.
Il dramma che colpì la città di Brescia, come l’Europa tutta, ci viene descritto dal notaio Giovan Battista Ussoli-Bianchi, un diarista locale che a partire dal 1600 aveva minuziosamente redatto una cronaca dei principali avvenimenti accaduti in città . Fu anzi vergando queste pagine che, verso la fine del 1630, anche lui si riscoprì coperto dalle “giandusse” – segno inequivocabile dell’infezione – che lo costrinsero a deporre la penna e a reclinare il capo sulla scrivania, passando la giovane vita nelle mani di sorella morte. Nel tono asettico della cronachistica notarile, emerge tuttavia da queste pagine il dramma dei duecento morti quotidiani che la sola città di Brescia trasportava alla sepoltura nei momenti di maggior virulenza del male.
Mentre tutto questo accadeva, non conosciamo lo stato d’animo di Angelo nel suo convento, ma se avvertiva l’urgenza del suo intervento dovette aspettare molto poco. Come sappiamo nel 1630 tutto il Bresciano era ormai raggiunto dall’infezione e l’intervento di Padre Angelo Tavoldino di Vestone si rivelò prezioso proprio nella sua patria. Ripulì e medicò i corpi piagati, offrì sollievo fisico e spirituale a centinaia di persone che indistintamente ne celebravano il coraggio, la sensibilità e l’abnegazione. Ma anch’egli, come il notaio Bianchi, dovette alla fine piegare il capo cedendo, proprio sullo scorcio del 1630 – quando si incominciò ad avvertire la remissione del contagio – alla virulenza dell’infezione.
Anche il suo nome quindi comparì in quel lungo elenco di frati cappuccini che – secondo il Bonari – la città di Brescia espose dal 1630 nella sala del Consiglio, a riconoscenza dell’abnegazione con la quale la provincia dei Santi Faustino e Giovita aveva curato anche nei momenti più drammatici la popolazione. Dei 103 religiosi che si erano prodigati nell’intervento, quarantasette morirono appestati, ventiquattro vennero contagiati, ma alla fine guarirono e trentadue uscirono indenni dal contagio.